Dreams and Mirrors

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    Disclaimer: Non possiedo nessuno dei personaggi citati (Eccetto i miei OC, credo XD) E scrivo per pura gioia fangirlistica.

    La storia è incentrata su Drusilla, i sogni spezzati, le gioie e i dolori della vampira che voleva diventare santa.
    I pairing sono Dru/Angelus, Dru/Darla, Dru/Spike e, sì, Dru/Buffy.
    Warning: Contenuti forti, non-con, cose vampiriche.





    Dreams and Mirrors





    Basta con Drusilla. Vedi, Drusilla non c’è più. E sai cosa rimane?

    Albert Camus, Caligola. Atto Primo.












    “C’era una volta una principessa …”

    Così cominciavano tutte le storie raccontate dalla tutrice: le avventure nell’estremo Oriente, quelle nelle coste dell’India remota; i duelli tra i monti innevati della Siberia e le favole amorose in Assisi e Gerusalemme. Quando la tutrice si sedeva a raccontare, dinanzi al fuoco del camino o nel ventre caldo di una camera da letto per bambine, le sorelle Cecil chiudevano gli occhi e si lasciavano condurre dalle sue parole in mondi meravigliosi.
    Erano quattro, le sorelle Cecil, legate tra loro dall’amore innocente e profondo dei consanguinei.
    La più grande, Judith, sognava più forte delle altre.








    Judith aveva occhi grandi, chiari e cangianti come quelli di un gatto. Lunghi capelli neri che legava con un nastro bianco e la dolcezza di una bambina cresciuta in una casa di uomini e donne pie.
    Ogni tanto si perdeva, Judith, nei giardini della residenza estiva del padre, tra i cipressi maestosi e i cespugli di more.
    Vagava cantando, sfiorando i boccioli di rose, rincorrendo le sorelle minori che sfuggivano veloci come volpi nella stagione della caccia e ripetendo tra sé e sé le parole meravigliose della tutrice.
    C’era una volta una principessa. Una ragazza.
    Sorrideva Judith, e immaginava balli sfrenati sino alle prime luci dell’alba ed eroi a cavallo. Poi si rimproverava. Ricordava le raccomandazioni della madre, le lezioni sul peccato e sul desiderio, e provava nuovamente ribrezzo per il suo nome difficile. Giuditta, che nella Bibbia tagliava la testa ad Oloferne, non aveva la purezza sublime né la docile sottomissione a Dio di Maria. Nella Bibbia agiva come un uomo, fisicamente e violentemente, per questo Judith sentiva la necessita di pregare più forte.
    Pregava Judith. Per le sorelle, per il padre che aveva ceduto ad un vano capriccio e la madre che da sempre la guidava nel percorso di fede.
    Per se stessa, che desiderava vedere e conoscere e ballare con un cavaliere dall’armatura scintillante. Con una principessa. Come una principessa.







    “Judith, corri!”

    Mary ed Elizabeth si erano già allontanate ridendo, alla ricerca di un nascondiglio.
    Judith abbassò la benda che le copriva gli occhi ed ebbe il tempo di scorgere Anne ghignante, oltre i rami di un vecchio pino appassito.
    Coscienziosa, impose a se stessa di non correre immediatamente all’inseguimento della sorella minore, che avrebbe perduto subito al gioco, ma aspettare e contare sino a dieci, rimettendo la benda al suo posto.
    Riuscì ad arrivare sino ad otto: la curiosità di sapere dove si erano nascoste le sorelle fu più grande di qualsiasi premura.
    “Ora arrivo!” annunciò contenta, riaprendo gli occhi per la ricerca.
    Si guardò attorno con grande circospezione e mosse i primi tentativi passi nel giardino in fiore.
    Le sorelle dovevano essersi nascoste ai limiti della proprietà: Judith non riusciva a scorgere le loro ombre né ad udire i loro passi. La percezione della loro lontananza si acuiva ogni istante sempre più e con essa cresceva l’assurdo timore di averle perdute per sempre.
    Judith,” recitò una voce lontana.
    La bambina voltò il capo in tutte le direzioni, ma non riuscì ad individuare il misterioso interlocutore. Un passerotto la raggiunse e si posò per un istante tra le sue dita.
    Judith sorrise, prima che un lampo di dolore le mozzasse il respiro. Si piegò in avanti, sino a sfiorare con le ginocchia il terreno umido, e fissò lo sguardo nel passerotto tra le sue dita. Riuscì ad esaminare con estrema nitidezza il colore del suo piumaggio e la luce viva nei suoi occhi neri.
    Si sedette su un sasso scivoloso.
    Sentiva la testa pulsarle e il cuore batterle all’impazzata, come in un giorno di vigilia. Aveva la percezione dello spazio che si allungava e restringeva al ritmo del suo respiro e la vista che si appannava.
    Fu allora che lo vide.
    Un uomo avvolto in un giaccone nero, dai lunghi capelli castani ed il sorriso cattivo.
    Dondolò avanti ed indietro, lasciandosi cullare dalla visione.
    Era un angelo – no, un diavolo – un angelo, ed era venuto a prenderla a portarla via. Sul suo petto ardeva un simbolo infiammato e stringeva tra le mani le sue bambole di bambina, tutte accecate e rotte. Parlava con accento straniero.
    E nella nebbia della visione, le sue parole si mescolavano.

    Lo vedi, padre? Ho fatto qualcosa di me stesso dopotutto.

    Posso rimanere in città per tutto il tempo che vuoi.

    Oh Buffy, cosa è successo?

    Non è il demone in me che ha bisogno di uccidere, è l’uomo.



    “Oh basta …” ansimò Judith, sfinita.
    Chiuse gli occhi e si prese il capo tra le mani, comandando al vortice di voci dentro sé di tacere.
    Vide ancora l’uomo e il sangue, il dolore. Pianse le perdite che avrebbe sofferto e che ancora non sapeva. Si sentì perduta e sola come non mai.
    Fu allora che la vide.
    La ragazza bionda, armata di una spada scintillante. Judith l’avrebbe rivista per secoli nei suoi sogni confusi, nelle visioni del plenilunio.
    Tese una mano per sfiorarla, ma la sentì svanire come foschia all’orizzonte.
    Le rimase impresso, però, il suo cipiglio deciso, la forza con cui brandiva la spada e il crocifisso sul suo petto. Non aveva nome, ma non poteva che chiamarsi salvezza e protezione. Ed era venuta per lei.
    Il pulsare alle tempie si intensificò per un istante, accompagnato da un nodo allo stomaco. Judith sentì un fiotto caldo scorrerle tra le gambe e la liberazione della fine del dolore.
    Riaprì gli occhi e vide Anne a pochi passi da lei, intenta a fissarla.
    “Stai bene?” domandò la sorella.
    Judith annuì. Abbozzò un sorriso prima incerto poi solare. Corse ad abbracciare la sorella.
    Sul sasso scivoloso il sangue del suo menarca.

    Edited by Kiki May - 16/11/2014, 13:47
     
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  2. keiko89
     
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    OOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOk io adesso tento di star buona e calma e non far la stalker da subito ma santocielo se tu non posti aògjòajògjaòjgòajòafgjgiajl

    *si ricompone*


    Allora, mi piace. Mi piace un sacco anche se siamo solo all'inizio.
    Adoro Drusilla e una ff incentrata su di lei :Q___ *me felice*

    Complimenti, cara, anche per lo stile di scrittura. Io lo trovo sempre più meraviglioso, è un piacere leggerti.

    Aspetto con ansia il seguito e il finale l'ho trovato azzeccatissimo. La metafora del menarca come inizio di una mutazione, un cambio di vita è perfetto (almeno spero di averne colto il giusto significato).

    A presto *CC*
     
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  3. kasumi
     
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    Ho fatto un po' fatica a leggerla per via dello stile spezzettato, ma il characting è perfetto :)
    Suggestive le varie immagini evocate dal testo, come il finale col sangue. Un modo per legare la femminilità di Judith col suo futuro da vampira.
    Mi è piaciuta anche la menzione di Giuditta. Trovo sia un personaggio biblico molto interessante e controverso.

    Ps. Una curiosità.. le informazioni sul passato di Drusilla le hai trovate in internet o nel telefilm? Ormai è passato tanto tempo da quando l'ho visto e non so più distinguere tra finzione letteraria e ripresa della trama originale XD

    A presto! :)
     
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    Eccomi!

    Keiko: Cara, grazie! çWç Questa storia la sto scrivendo per quattro persone contate, oltre che per me stessa. Drusilla è un pochino impopolare, soprattutto se non associata al classico triangolo con Angelus e Spike, ma io mi sto appassionando. Ho un miliardo di idee XD Spero che riuscirò ad estrinsecarle tutte.

    Kasumi: Grazie anche a te! Sono davvero contenta che l'idea ti piaccia. Le informazioni su Drusilla da umana sono veramente pochissime. Dal canon si sa solo che aveva una sorella (Uccisa assieme al resto della famiglia da Angelus) e che ad un certo punto vuole diventare suora. Praticamente tutto il background, dal nome alla personalità alle parentele me lo sono inventato io di sana pianta. XD Anche questo capitolo è tutto farina del mio sacco.





    ˜ Uno




    18 Gennaio 1857







    La pioggia cadeva veloce tra i rami di rose e i ciliegi appassiti per il freddo.
    Judith osservava la dolcezza delle gocce che si infrangevano sul terreno del giardino dall’uscio di casa. Alitava piano contro il vetro della porta e disegnava fiori sulla superficie inumidita, poi li guardava svanire, nella quieta felicità del suo gioco segreto.
    “Judith, vieni qui, mia cara,” comandò suo padre, accomodatosi nella poltrona preferita.
    Judith cancellò con un colpo di mano i suoi disegni e si avvicinò al padre. Si sedette accanto a lui, sul pavimento, come sempre faceva.
    “Domani è il tuo compleanno,” disse il padre. “Desideri qualcosa in particolare?”
    Judith scosse il capo, ricordando le parole della madre sui regali troppo dispendiosi e sul suo dovere di essere umile e dimessa.
    “Quel che ritenete opportuno voi, padre. Fosse anche una viola di campo.”
    Il signor Cecil rise.
    “La tua modestia ti fa onore, Judy, ma domani è il tuo giorno ed hai il diritto di chiedere ciò che desideri di più.”
    Judith si morse le labbra, imponendosi silenzio.
    Un pensiero soltanto le attraversò la mente, un pensiero da bambina: il desiderio di una bambola nuova; una principessa dei boschi o una regina del castello dall’abito color porpora. Una nuova compagna di giochi, bianca e dorata.
    “Allora, ci hai pensato?”
    Judith serrò gli occhi dolorosamente.
    “Un nuovo abito, padre. Un abito per la domenica.” Rispose.
    “Ed un nuovo abito avrai,” sancì il signor Cecil, carezzandole il capo.
    Judith ebbe l’impulso di rimangiarsi le sue parole, supplicare il padre di guardarla e scoppiare a piangere senza vergogna, confidando nella sua premura.
    “Vi ringrazio, padre.” Disse soltanto.
    Il giorno successivo avrebbe compiuto diciassette anni. Era una donna ormai, un comportamento del genere sarebbe risultato più che inappropriato.
    “Sei la più pia tra le figlie, Judy cara,” mormorò il padre e Judith non riuscì a dominare il rossore che le colorava le guance.
    Non era la più pia tra le figlie, non lo era affatto. Era solo capace di controllarsi e rispondere a modo seguendo gli insegnamenti della madre.
    Era brava a mentire.
    “Non dite così, padre. Mi lusingate senza ragione.”
    “Oh, ma non è affatto vero. Sei buona, Judith. Sei buona e dolce più di ogni altra fanciulla della tua età.”
    Stavolta Judith rinunciò a contraddire il genitore. Rivolse lo sguardo al giardino fuori dalla stanza e notò il bagliore dei lampi che esplodevano nel cielo.
    “A volte penso che …” sussurrò a bassissima voce.
    “Cosa pensi, cara?”
    “Io penso che …” si forzò a continuare. “Penso di aver preso in prestito il giorno del mio compleanno. Lo sento come se non fosse mio, se fosse il giorno destinato ad una ragazza diversa, in un tempo diverso. Mi sento quasi una ladra.” Confessò, senza riuscire a frenarsi.
    Alzò il capo allora, e rivolse lo sguardo spaventato a quello padre, che la fissava in silenzio. Attese il suo rimprovero e si stupì quando sentì la sua risata.
    “Padre …”
    “Che sciocchezze dici, mia cara!” esclamò lui, un lampo di divertimento nell’azzurro dei suoi occhi. “Hai proprio una grande immaginazione! Ma l’immaginazione va imbrigliata come ogni altra cosa, soprattutto per una giovane donna come te.” Aggiunse il padre, con grande saggezza. “Presto diventerai una sposa e una madre e non potrai più perderti nei tuoi mondi immaginari.”
    Judith annuì.
    “Lo so, padre. Avete ragione.”
    “Bene.” Replicò lui. “Eppure sei ancora la mia bambina …” mormorò, più a se stesso che a lei. “Quasi non mi sento in colpa a lasciarti vivere nei sogni.”
    Seguì un breve silenzio, il bagliore di un nuovo lampo.
    “Ogni giorno dell’anno è dedicato ad un santo,” disse dunque Judith. “Prendiamo in prestito il giorno di un santo.”
    “Certo, mia cara. È proprio così. Domani sarai vegliata dal santo che ha permesso la tua nascita.”
    Judith annuì di nuovo.
    Conosceva la storia della sua origine. Sapeva che sarebbe dovuta nascere a Marzo, nella stagione più mite, allo sbocciare dei primi fiori, ma un malore straordinario della madre l’aveva costretta a venire al mondo nel gelo dell’inverno.
    “Sembravi quasi morta,” raccontò suo padre. “Avevamo la certezza che non saresti sopravvissuta neanche un giorno, piccola e fragile com’eri. E invece! Dio ha deciso di conservarti, di salvarti e donarti a noi. A Dio devi consacrare la tua vita ed ognuna delle tue opere.”
    “Sì, padre,” sussurrò lei.
    Il pensiero che Dio la stesse vegliando, che avesse consentito la sua stessa nascita, era da sempre una fonte di conforto e gioia per Judith, che si alzò, si diresse alla finestra ed alitò sul vetro, lo spirito nuovamente in quiete.

    Edited by Kiki May - 14/11/2014, 21:33
     
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  5. kasumi
     
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    Oh, questo mi è piaciuto molto perchè ci sono le interazioni col padre! Peccato che sia corto.
    A presto :)
     
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    MEGA-AGGIORNAMENTO DELLA FANFIC.

    Che era già aggiornata su EFP, ma non qui.




    ~ Due




    15 Gennaio 1860





    C’era un uomo adesso nella vita di Judith. Un uomo dal volto angelico e l’animo crudele più del diavolo. Un uomo che la inseguiva ovunque si trovasse, che avvelenava con la sua presenza l’esistenza pacifica e felice della famiglia Cecil. Un uomo che Judith non mai smetteva di vedere nei suoi sogni, nelle sue visioni.
    La sua fine, un istinto lontano le suggeriva. La fine di ogni cosa.
    Piangeva Judith, piangeva dinanzi all’altare a Dio nel convento nel quale aveva trovato rifugio. Piangeva, ricordando le carezze del padre e il volto severo della madre. Piangeva ricordando gli zii, i cari cugini e i cuccioli a loro regalati, inchiodati e dissanguati sull’uscio di casa. Piangeva e gemeva per la sorte crudele che il Signore le aveva riservato.
    È questa la mia prova? La pena per la mia santità? Chiedeva al crocifisso muto, in ginocchio per ore, sino a provocarsi ferite alle gambe. È questo il mio destino amaro?
    Le lacrime salate le scorrevano sul volto e niente sembrava quietarla.
    Riusciva a mostrarsi forte, però, Judith. Riusciva a trasmettere un senso di pace ed obbedienza che frenava le ansie delle consorelle più giovani.
    Si dedicava ai fiori, nei mattini freddi dopo la preghiera. Accudiva un cespuglio di rose particolarmente caro alla Madre Superiora, e coltivava i legumi, le piante medicinali e le erbe per gli infusi.
    Stringeva le mani delle ragazze più giovani, istruendole alla preghiera e alla quieta benevolenza. Consolava i loro spiriti tormentati.
    “È mia questa grandezza? Questa pace?” domandò Judith a Dio.
    Era sola finalmente, nella stanza spartana che le sorelle le avevano donato. Poteva pregare e mettere a nudo le sue paure e i turbamenti più profondi dell’anima.
    “Sento di non essere io ad affrontare con così tanta forza questa prova, oh Dio padre,” mormorò, rivolta al crocifisso. “Io non sono forte. Sono la Tua umile serva, ma non sono forte,” singhiozzò, chiudendo gli occhi.
    Un’immagine le sovvenne, la consolazione che non voleva concedere a se stessa: la fanciulla armata di spada, intenta a combattere.
    Il suo cavaliere dorato.
    Judith arrossiva e provava a scacciare il pensiero che sentiva come impuro.
    Eppure la fanciulla dorata era l’unica cosa capace di darle il coraggio di affrontare il nuovo giorno, l’unica visione serena in un mare di lacrime e sangue.
    “Chi è lei?” domandò Judith in preghiera. “La incontrerò? Sarà lei a salvarmi? Perché indossa vestiti da uomo?”
    Aveva sentito parlare di una leggenda Judith, di una fanciulla dalla forza sovraumana, capace di cacciare mostri e uccidere vampiri.
    Nient’altro che una favola, le aveva assicurato la Madre Superiora, e il cuore di Judith aveva perso quasi un battito, distrutto il germoglio di speranza che ancora lo animava.
    “Ti prego Signore, aiutami,” chiese ancora, con forza. “Aiutami e digiunerò ancora. Mi dedicherò alle opere pie e farò di tutto – di tutto, Signore – per rendermi pura ai tuoi occhi, per combattere le indegne visioni che mi affollano la mente. Non voglio essere figlia di Satana, voglio essere tua, mio Dio.”
    Una voce riscosse Judith dalla preghiera, seguita dal bussare contro la sua porta.
    Judith si alzò da terra, accomodò alla meglio vestito e capelli e scaccio le lacrime dal volto, imponendosi la calma. Prese un respiro e si diresse alla porta. La aprì.
    “Judith, sono venute a trovarti le tue sorelle,” mormorò la voce di una suora, rivelando i volti spaventati e dolci di Elizabeth e Anne.
    “Sorelle!” esclamò Judith, invitandole ad entrare nella sua stanza, accogliendole tra le sue braccia. “Sorelle mie!”
    “Mary ci aveva proibito di raggiungerti,” rivelò Elizabeth, gli occhi lucidi di lacrime. “Ha detto che sarebbe stato pericoloso, che non avremmo dovuto …”
    “Ma non potevamo lasciarti sola.” Disse Annie. “Non potevamo.”
    Judith le carezzò i lunghi capelli castani e la attirò ancora una volta a sé. Pianse lacrime di gioia, di sorpresa, di sollievo.





    ~ Tre



    22 Maggio 1860





    Aveva corso, Judith.
    Aveva corso per ore, lungo le strade sterrate della mente, per i vicoli nascosti nei pensieri e negli incubi, per le foreste della notte.
    Aveva corso per sfuggire all’uomo dal sorriso cattivo, forzando i muscoli delle gambe più che poteva, respirando con rigore per non svenire. Aveva anche tentato di salvare i suoi cari con ogni mezzo, implorando addii strazianti e fuggendo dalla casa che l’aveva vista nascere e che serbava i ricordi più belli di un’infanzia perduta.
    Poi si era arresa, come la pecorella vicina ad una macchia di more. Aveva arretrato, considerato le spine per un attimo, avanzato tra le erbacce e i rovi.
    Era stata catturata.



    La prima a cadere era stata Annie. Annie o Elizabeth?
    Il seno di Elizabeth era stato squarciato da zanne acuminate – questo lo ricordava bene – e sul suo bel vestito color avorio si era formata una grossa macchia violacea, come succo di mirtilli caduto su una tovaglia nuova.
    Annie non aveva pianto. Aveva stretto la sorella maggiore in una presa irremovibile ed aveva arretrato sino ai margini del coro, dove giacevano le consorelle massacrate. Aveva provato ad usare una croce come arma, ma tutto era stato inutile.
    Non aveva pianto, però. Aveva fissato Judith mentre veniva morsa e sospirato sulle labbra una preghiera incomprensibile.
    Non aveva pianto.
    L’allarme della Madre Superiora era stato inutile, tardivo, quasi uno scherzo crudele della speranza. Come i capelli di Mary recapitati in monastero con grande ritardo, solo dopo che tutto era stato consumato.




    Un dolore lacerante al ventre, la sensazione di scoppiare.
    Questo aveva provato Judith, il velo bianco delle spose di Cristo ancora sul capo. Assistendo al massacro perpetrato dai suoi carnefici si era piegata su se stessa, in un angolo della chiesetta che l’aveva ospitata per mesi, ed aveva abbracciato il suo ventre gonfio.
    Aveva pianto, allora, e stretto sempre più forte, sino a mozzare il suo stesso respiro. Come in un parto aveva serrato i denti e pregato che il dolore non fosse così forte da uccidere la nuova nascita, da uccidere lei.
    Poi aveva riso, perché al dolore non c’era fine e le sue lacrime erano le stesse di quando, bambina, si arrabbiava con la madre per un vestito nuovo regalato a Mary e non a lei. Futile dolore. Inutile, inutile, inutile, divertente
    Poi la nausea.
    Due corpi che premevano l’uno contro l’altro, a pochi passi da lei. Judith poteva sentire lo schiaffo della carne sulla carne e il suono umido dei baci, il ronzio delle risa.
    Avrebbe voluto vomitare per quella fisicità così nauseabonda.
    La macchia scura sul petto di Elizabeth, il cuore strappato della madre superiora e la lingua della bellissimo mostro biondo che si immergeva nella bocca del compagno e …
    “Oh Dio, non questo,” aveva mormorato Judith, che già aveva un altro nome e un destino diverso.
    Allora dinanzi a lei si era chinata la guerriera dorata, le aveva sorriso timidamente ed aveva stretto le mani tra le sue. Forte.






    ~ Quattro





    Giugno 1860




    Judith aveva urlato e urlato e urlato. Si era tesa alla presa dei suoi aggressori ed il suo corpo aveva combattuto una guerra febbrile tra le resa e il dolore della resistenza. Aveva scalciato contro Angelus e per questo era stata punita con uno schiaffo e un pugno allo stomaco. Si era poi accartocciata al suolo, come una foglia morta, ed aveva concesso il suo corpo inerme ai minions che avrebbero dovuto prendersi cura di lei. Era stata rinchiusa in soffitta.


    C’erano quadri in soffitta, distrutti dalla muffa, tolti dalle loro cornici. Quadri antichi, che erano appartenuti ai vecchi padroni di casa, uccisi e sepolti in giardino.
    Judith sedeva sul pavimento freddo e li scrutava per ore, alla ricerca di nuovi dettagli da memorizzare.
    Paparino odiava le sue ricerche. Mandava dell’acqua fresca e del sapone ogni giorno perché Judith potesse lavarsi e non odorare di muffa. Quando neanche il sapone bastava, faceva passare dall’uscio un sottile panno di stoffa, intinto nel profumo.
    Paparino odiava la sciatteria, la poca cura che Judith avrebbe riservato al suo corpo magro e diverso. Paparino esigeva che Judith fosse perfetta.
    C’erano quadri in soffitta e un letto rosa. Judith annusava le lenzuola e dormiva sul pavimento, i piedi appoggiati ai suoi bordi.
    Si nascondeva ogni tanto, sotto il letto dalle lenzuola rosa, soprattutto quando sentiva Paparino salire le scale – i gradini erano trentadue, Judith li contava a mente ogni volta e talvolta non mancava di fare la pipì sotto il letto che non poteva nasconderla.
    Paparino saliva trentadue scale e poi attendeva in corridoio, apriva la porta con lentezza e sorrideva a Judith nascosta tra le coperte. Quando odorava il puzzo di urina la picchiava strappandole e i capelli e schiaffeggiandole la schiena, le braccia, il sesso. Paparino odiava la pipì.
    Se Judith era stata brava – e Judith era una brava, brava figlia – Paparino era dolce concedeva lunghe carezze alla sua diletta, ritardando l’amplesso sul letto rosa.
    Judith amava le carezze di Paparino, ma detestava il prolungamento dell’attesa. Se l’amplesso era inevitabile Judith preferiva scontarlo in anticipo e salutare Paparino, che si sarebbe ripresentato il giorno dopo alla stessa ora.
    Judith preferiva giacere subito con lui per poter tornare a dedicarsi all’osservazione dei quadri e ai giochi preferiti con un topo che si nascondeva tra le pareti.
    C’era anche un topo in soffitta. Judith lo immaginava assistere sconcertato alle carezze di Paparino e scappare spaventato quando il letto si muoveva troppo o la testiera batteva forte contro il muro.
    Judith aveva chiamato il topo Mr. Mouse e l’aveva bagnato nel catino d’acqua che le passavano i minions al tramonto. Judith aveva raccontato di Paparino a Mr. Mouse cosicché non succedesse mai ai due di incontrarsi. (Paparino non avrebbe approvato la presenza di Mr. Mouse in soffitta)
    Judith amava Mr. Mouse e, soprattutto, non voleva restare sola.
    Non voleva restare sola nella soffitta che conteneva quadri antichi, un letto rosa e specchi che non la riflettevano più. C’erano così tanti oggetti dimenticati nella muffa e Paparino non smetteva di salire le scale e trenta, trentuno, trentadue …
    (E Judith soffriva ogni volta. Un dolore sordo che la prendeva al basso ventre, e tutto quello che riusciva a fare era dimenarsi sino a che al dolore non subentrava una strana sensazione, come l’impressione di avere la pancia piena d’acqua)

    Trenta, trentuno, trentadue … Judith non poteva uscire più dalla stanza e non poteva più guardare il sole. Solo negli specchi che non la riflettevano più Judith vedeva ombre dorate che sussurravano solo un nome: Drusilla.








    ~ Cinque





    15 Luglio 1860




    L’estate era arrivata. Un’estate londinese eccezionalmente calda e umida.
    Judith l’aveva celebrata cambiando nome: era Drusilla adesso, Drusilla che avrebbe danzato con un principe insanguinato e dato un nome a tutte le stelle e … Drusilla, che aveva cantato per ore nella solitudine della stanza ammuffita, accanto a Mr. Mouse che rodeva i vecchi legni marci del pavimento.
    Paparino e la sua donna – mammina? – erano partiti in viaggio e Drusilla era rimasta sola custode della casa, assieme ai minions che l’accudivano e le bastonavano le mani quando cercava di aprire finestre o buchi nel soffitto.
    Non aveva compreso bene il divieto che le era stato imposto da Paparino: per giorni Drusilla aveva cercato la luce del sole che non avrebbe mai più rivisto. Si era rassegnata solo quando un minion aveva minacciato di toglierle Mr. Mouse, suo unico amico.
    L’assenza di Paparino aveva risollevato lo spirito di Drusilla, che non doveva più preoccuparsi dei trentadue gradini fuori dalla sua stanza e che avrebbe potuto fare pipì attorno al letto e dormire coi piedi appoggiati alla testiera.
    L’assenza di Paparino aveva anche animato un sentimento più profondo, nero come l’odio e denso come l’amore, che Drusilla cominciava a provare per il suo carnefice. Se era davvero il suo nuovo Padre, Drusilla avrebbe dovuto amarlo. Amarlo come una figlia devota ed un’amante consumata. Amarlo sino al limite dei sensi, nonostante i gradini delle scale e il divieto di fare pipì e l’impossibilità di aprire squarci nel buio della casa – e ucciderlo, ucciderlo magari e danzare sul suo corpo in fiamme.
    Drusilla era, prima di ogni altra cosa, una brava ragazza.
    Non avrebbe mai ascoltato i suggerimenti rivoltosi della ragazza allo specchio.



    “Mr. Mouse, riesci a contare i fiori sbocciati?”
    Sedeva sulle ginocchia Drusilla, dinanzi ad un paesaggio campestre verde e giallo, quasi ingoiato dalla muffa. Mr. Mouse rodeva i pezzi di cornice che si decomponevano nel pavimento.
    “Sei davvero monello, Mr. Mouse! Non sai fare conversazione e non riesci a contare i fiori sbocciati nel quadro. Guardali! Sono venti, rossi e gialli. Sono i fiori della mia prima estate.”
    Drusilla attirò il topo in un abbraccio e sorrise del suo calore.
    Poi sentì la porta d’ingresso, i minions, le scale …
    “Paparino è tornato!”
    annunciò, presa dalla nuova felicità che le cresceva dentro.
    Subito frenò l’impulso di fare pipì sotto il letto. Premette il sesso contro le travi marce e provò un immediato sollievo. Rise, come non faceva da settimane. Versò dell’acqua nella bacinella di porcellana e si lavò le braccia e le ascelle. Studiò l’onore del sapone sulle unghie.
    Paparino impiegò un tempo incalcolabile a salire le trentadue scale, insieme molto e poco. Alla fine aprì la porta della stanza di Drusilla, senza bussare.
    “Ti sei lavata,” fu la prima cosa che disse, sorridendo. “Stai imparando, vedi? Ben presto potrò portarti di sotto e conoscerai anche Darla.”
    Drusilla fremette d’emozione ma si forzò a restare immobile, come una brava figlia.
    “È la mia nuova mammina?” chiese, “O mia nonna?”
    Angelus ridacchiò.
    “Sei veramente pazza.” Disse, e poi avvicinandosi. “Ti ho portato un regalo.”
    Erano denti staccati ad una mascella umana. Drusilla li prese tra le mani e rise.
    “Ci vediamo domani,” mormorò Angelus. “Ora sono troppo stanco per salutarti come si deve.”
    Drusilla annuì e fece quasi segno di voler accompagnare Angelus alla porta. Rimase nuovamente sola, pulita, con un regalo.
    I denti erano quattro, del colore dell’avorio. Solo in uno rimanevano delle tracce scure che emanavano un buon odore. Drusilla spese lunghi attimi ad annusarle. Poi si voltò verso Mr. Mouse.
    “Sei qui allora!” esclamò. “Vogliamo fare un nuovo gioco?”
    Prese il topo tra le braccia e lo accarezzò lungamente, con dolcezza. Studiò il castano scuro del suo pelo, il nero vivido degli occhi e baciò la sua bocca rosa.
    Poi lo addentò con furore.
    Il sangue del topo scivolò sul pavimento e sulla veste bianca di Drusilla, che beveva a grandi sorsi.







    ~ Sei




    30 Agosto 1860





    E così era cominciata la stagione della caccia, dei denti acuminati. Dal sacrificio di Judith era nata Drusilla, creatura della notte, e nel sacrificio Drusilla esisteva. Nel sangue di innocenti, uomini, donne e bambini, che si perdevano nei suoi occhi prima di esalare l’ultimo respiro. Uscito dalla soffitta piena di muffa, il capolavoro di Angelus si concedeva adesso alla sua platea.


    “Vuoi correre ancora per molto, bambino?” domandò Drusilla, scansando i rovi che le strappavano il vestito bianco.
    Era l’ultima notte di Agosto – o la penultima? Non ricordava – e Paparino aveva deciso di portarla nuovamente con sé, a caccia.
    Paparino era diventato molto buono con Drusilla, non saliva più i trentadue gradini e le concedeva di uscire dalla soffitta umida per danzare nel cielo pieno di stelle. Di più, tante volte le prendeva il braccio e la trascinava fuori, dove la carrozza con Nonnina era già pronta a condurli verso nuove avventure. Giravano per i campi, Angelus e famiglia, alla ricerca di ville isolate da depredare e dipingere di sangue. Di solito si introducevano nelle case dalle porte di servizio (Paparino era molto bravo con le domestiche) ma quando il gioco lo esigeva sapevano anche simulare un legame di parentela o un’emergenza per cui chiedere aiuto.
    Drusilla aveva imparato a stare zitta nell’ombra della carrozza o a fingere svenimenti provvidenziali dinanzi a ignare vittime. La parte preferita del gioco, però, rimaneva sempre quella della caccia al topo.
    “Uccellin di bosco … uccellino?” cantilenò Drusilla. “I tuoi genitori saranno già addormentati, non farli preoccupare.” Aggiunse dolcemente, avanzando nella foresta scura.
    Riusciva a sentire il profumo della sua vittima, l’odore pungente della paura, e il borbottio dello stomaco che ne rivelava i movimenti.
    Era il figlio più giovane della coppia di contadini che viveva nella casa assaltata ed aveva guance piene e capelli d’oro, proprio come quelli di un angelo.
    Inoltre non sapeva affatto nascondersi.
    “Eccoti qua!” esclamò Drusilla, afferrando il bambino che aveva tentato di infilarsi in un tronco di pino sventrato. Le sue braccia molli e colme di sangue e dolcezza non avevano consentito la riuscita del piano. “Così bianco e soave,” sussurrò la vampira, avvicinando le labbra al suo volto.
    Il bambino tremava ed emanava un aspro olezzo di urina.
    “Anche io faccio la pipì sotto il letto.” Confessò Drusilla, sorridendo.
    Era in questi momenti che le accadeva di immaginare un’altra ragazza, impegnata in un’altra caccia. A volte la vedeva giovane, quasi al limite dell’infanzia, mentre intrecciava i lunghi capelli biondi ed immergeva nel corpo delle sue vittime una saetta appuntita; alle volte scorgeva la chioma leonina e il rigore del volto baciato dal sole e assisteva ad una lunga danza tra lapidi e nebbia. Tutte le volte era una nuova rivelazione.
    “Le somigli, sai?” constatò la vampira, carezzando il volto della vittima che aveva già chiuso gli occhi (Quanto intuito). “Dorato, morbido e notturno, come un fiore. Vuoi udire le ultime parole dei tuoi genitori?” chiese e fu allora che sentì l’urlo di Angelus che la chiamava.
    Drusilla affondò i denti nella carne saporita del bambino e succhiò velocemente, a grandi sorsi. Poi lasciò andare il corpo morto tra le foglie, sistemò alla meglio l’abito bianco che Paparino le aveva donato e raggiunse la casa.
    Angelus e Darla avevano terminato di cenare, gli avanzi giacevano tra le sedie della sala da pranzo.
    “Dovremmo trovarti un nuovo nome,” esordì Angelus, rivolgendosi a Drusilla. Darla si era sdraiata su un cadavere, un sorriso di piacere ad addolcirle il volto. “Che nome avevano pensato di affibbiarti le suore?”
    Drusilla non badò alle parole di Paparino e vagò nella casetta silenziosa e profumata di sangue. Si chinò sui corpi freddi dei padroni e contò loro le dita. Studiò con attenzione ogni dettaglio del mobilio sino a quando la vide: una bambina di porcellana, bianca e bionda. La prese tra le braccia e la cullò al suono delle rime d’infanzia che le risuonavano dentro. La baciò sulle labbra.
    “Sarai Drusilla,” dichiarò Angelus. “Drusilla, come la sorella di Caligola,” aggiunse e rise.
    Drusilla gli riservò un timido sorriso, poiché già sapeva.
    Il suo nome e quello di Miss Edith.








    Note ~


    Oh, eccoci. Dunque, Drusilla già sapeva quale sarebbe stato il suo nuovo nome, possiamo pensare che l’abbia visto nel futuro, ma Angelus lo trova tanto divertente perché si vocifera che Drusilla, sorella di Caligola, fosse anche amante dell’imperatore. In pratica incest, ecco. Cosa abbastanza ironica considerato il fatto che Drusilla chiama Angelus “paparino”(In quanto creatore) ma ha anche una relazione sessuale con lui. Similitudini *C*







    ~ Sette




    13 Settembre 1860




    Miss Edith odorava di sabbia. A questa conclusione Drusilla era giunta dopo lunghe ed estenuanti indagini sul corpo della nuova amica di giochi.
    Miss Edith odorava di sabbia; dovevano averla creata con conchiglie e pezzi di scoglio per darle quella particolare caratteristica. Coi raggi del sole al meriggio, perché Miss Edith profumava come l’estate che Drusilla non avrebbe mai più rivisto. (O sì, forse. Tra le braccia del re di coppe. Nei pugni di una ragazza di un’altra epoca. Forse. Ancora un’estate.)
    Aveva una gamba lievemente più lunga dell’altra, Miss Edith, inclinata verso destra, e grandi occhi grigi, decorati da lunghe ciglia scure. I capelli erano biondi, arricciati in deliziosi boccoli. Non profumavano di niente, aveva stabilito Drusilla dopo un’attenta esamina. Era il corpo di Miss Edith ad emanare odore. Il suo corpo e la sua essenza.
    Edith … ed –
    Nel corso delle sue indagini Drusilla aveva notato una lieve crepa sulla nuca, ai margini del collo. Questo dettaglio l’aveva fatta sorridere di contentezza, poiché aveva visto in Miss Edith una compagna di fato e una creatura della notte come lei. (Ed – edi … Paparino le aveva spiegato cos’era diventata, cos’era una creatura della notte)
    Inoltre Miss Edith portava un vestito bianco e rosa, bellissimo come quello di una vera principessa. Drusilla la stringeva e sognava.
    Eidolon.



    Un’altra cosa attirava l’insaziabile curiosità della nuova nata: Darla.
    La vampira che chiamava Nonna, che si intratteneva con i rari ospiti che venivano a visitarla e divideva il letto con Paparino, era per Drusilla una fonte di sorprese continua.
    La ammirava, altera e perfettamente controllata, mentre strappava le corde vocali delle sue vittime e alternava sorrisi compiaciuti a colpi mortali. La studiava, rossa e bianca come le rose, al fianco di Angelus, inseparabile da lui e capace di dominarne i più segreti impulsi proprio come una moglie esperta. La spiava, nelle notti solitarie, quando Paparino era bandito dalla camera da letto e per fare ammenda doveva portare in casa vittime pregiatissime, che urlassero e piangessero per ore.
    Darla, la vampira madre, aveva una voce soave come il canto degli usignoli.



    “Aspettami qui Miss Edith, aspettami,” mormorò Drusilla, sistemando alla meglio l’amica di giochi sul tavolo dinanzi al suo letto. “Adesso siamo ospiti nella stanza delle fanciulle. Dobbiamo comportarci bene se non vogliamo essere rispedite in soffitta, tra i quadri dimenticati,” spiegò, aggiustandole i nastri del vestito rosa. Era un bellissimo vestito quello di Edith. “Paparino mi ha vietato di uscire dalla stanza e di parlare coi minions ma ho tanta voglia di … nella stanza accanto c’è la Nonnina. Vorrei guardarla ancora.” Confessò Drusilla, emozionata.
    Intrufolarsi di nascosto nella camera della Nonnina la eccitava più di ogni altra cosa, quasi quanto la caccia.
    “Aspettami qui, Miss Edith, e non guardare!” raccomandò la vampira. “Sarò di ritorno tra poco.” E, mormorato il suo congedo, si diresse nella camera adiacente, che aveva una porta comunicante con la stanza di Darla.
    Socchiuse la porta con estrema delicatezza, per non fare rumore, e avvicinò il volto allo spiraglio di luce.
    Darla era sola nella sua camera. Congedate le domestiche, aveva deciso di dedicare del tempo a se stessa, come spesso faceva.
    Nuda, si era seduta sul canapè intarsiato e aveva cominciato a lavarsi lentamente, con un panno di cotone. Nella sedia di fronte a lei un catino d’acqua e delle essenze profumate, tra i capelli un monile dalla forma arrotondata.
    Era bella come una visione, come le sante nei libri che Drusilla usava sfogliare da bambina. Aveva capelli lunghi e biondi ed una linea del collo elegante.
    La sua schiena sembrava incisa da uno scultore in un turbinio d’ispirazione, la curva delle natiche accentuava la morbidezza dei fianchi, delle cosce piene. Le mani erano piccole, dita rosee e curate, sempre pulite, e i seni erano frutti maturi pronti al …
    “Non esistono sante come te, ragazzina.”
    Non appena Drusilla sentì la voce di Nonnina si sbilanciò in avanti e spalancò la porta, facendo irruzione involontaria nella camera da letto.
    “Vuoi continuare a guardare?” domandò Darla, voltandosi. La grandchilde batté i piedi al suolo, incerta sul da farsi. “Non c’è che da chiedere,” aggiunse lei, esibendo una nudità orgogliosa.
    Aveva un corpo bianco e caldo, così tenero.
    “Conosco quello sguardo,” disse Darla. “So che quel cerchi,” ribadì con un sorriso. Posò il panno umido sul canapè e profumò il collo e il seno con gocce di essenza floreale, prima di rivolgersi nuovamente alla grandchilde. “Non esistono sante come te, ragazzina, e il convento ti avrebbe presto rigettata.” Mormorò dolcemente, una carezza di spine. “Sei stata fortunata ad avere trovato noi.”







    Note ~


    Eidolon = dal greco antico “immagine”, “copia”.





    ~ Otto




    Novembre 1870






    E cominciò il dolore.
    Le fitte accecanti agli occhi, gli spasmi dei muscoli tesi. Drusilla era abituata al bruciore delle croci contro la sua pelle nuda, al dolore che sentiva ogni volta che Angelus lasciava il suo corpo dopo averlo preso e invaso, alle unghie di Darla sui polsi quando si comportava male, ai morsi del mattino che la lasciavano debole e illanguidita, preda di sogni antichi e ricordi dimenticati.
    Drusilla era abituata a non esistere senza dolore. Eppure una sofferenza nuova l’aveva aggredita brutalmente, una domenica d’autunno dopo un massacro in un ospizio per giovani madri. Drusilla aveva fremuto e rabbrividito, artigliando con le dita magre la carne dell’adolescente che stringeva tra le braccia, una ragazzina dai capelli d’oro, poi le lacrime avevano inumidito le sue guance e la vampira inerme aveva ceduto al pianto, sotto gli occhi increduli dei compagni.
    Il giorno successivo Drusilla aveva avvertito come uno strappo ai muscoli delle gambe e un dolore sordo, prepotente.
    Angelus l’aveva schiaffeggiata nel tentativo di farla tornare in sé. Darla aveva scrutato la scena con una smorfia di disapprovazione dipinta sul volto.
    Drusilla aveva urlato e si era tesa tra le braccia del nuovo padre – che non era il suo vero padre. Come aveva potuto dimenticare? Come?Come?Come? – ed aveva pianto sino a perdere la voce.




    Era una stanza bianca e vuota, il letto disfatto e pieno di corde in pelle.
    (Da quando si usavano corde in pelle per un letto?)
    La ragazzina giaceva in un angolo, tramante e spaurita come un passerotto. Aveva capelli d’oro a coprirle il volto e unghie spezzate e intrise di sangue.
    (La sua vita era una menzogna. Anche la sorella, che amava così tanto, non era altro che un miraggio, una copia. Un Eidolon – Eid – Edith – Anne)
    Drusilla provava un dolore nuovo, più dolce e tenero. Un dolore da sorella, madre e figlia (Eidolon) per una donna che doveva ancora venire, per una ragazza che non aveva ancora conosciuto la gioia del sole e che, come Drusilla, avrebbe vissuto con la notte nel cuore.
    “È tanto buio il luogo dove sei?” mormorò la vampira – non più vampira, ragazza – china accanto alla compagna di ospizio – manicomio.
    Buffy si stringeva le braccia e strappava i capelli biondi e …
    “Va tutto bene,” mormorò Drusilla. “Sei con me,” disse, premendo le labbra contro quelle della compagna.
    Avrebbero condiviso l’amore di due uomini e la lotta, l’oscurità, e nessuno le avrebbe ferite mai, mai più …
    “Mai più!” urlò Drusilla/Judith, piangendo. “Mai più!” ribadì, mentre i camici bianchi la trascinavano via.
    Pillole, pillole, paletti appuntiti.




    “Ti avevo detto che avremmo potuto fare a meno della presenza di una pazza nella nostra casa,” mormorò Darla, con calma studiata.
    Drusilla giaceva nel letto dei nuovi genitori, l’espressione tesa di chi stava vedendo un incubo.
    “È il mio capolavoro dopotutto.” Disse Angelus.
    “Sì, è il tuo capolavoro dopotutto.” Concordò Darla, inarcando un sopracciglio.
    Sapeva che gli uomini avevano costante bisogno di conferma.



    “Mai più! Mai più!” urlava Drusilla/Judith, nella gabbia creata dall’illusione. (La sua o quella della ragazza dorata?) Sapeva che c’erano altri ricordi da esplorare e che li avrebbe visti.
    Sapeva, senza rendersene conto, che la sua vita si sarebbe incrociata con quella della ragazza innumerevoli volte e che lei avrebbe tratto piacere nel dolore.
    Il piacere nel dolore, Drusilla non poteva esistere senza.






    ~ Nove




    Novembre 1871






    E cominciò il piacere.
    Darla ed Angelus avevano imbrigliato la sfrenata immaginazione di Drusilla, le avevano dato obiettivi, prede da cacciare, percorsi da seguire nella notte. Drusilla era divenuta un vero vampiro sotto la loro egida e ai loro comandi, agli ordini sussurrati tra le ombre, alle occhiate dorate di rimprovero aveva subordinato ogni sua scelta.
    I malesseri temporanei, i dolorosissimi crampi ai muscoli e il pulsare delle tempie e quei sogni che sembravano voler uscire dalla gabbia della mente e diffondersi, diffondersi nell’aria, invadere tutto, sovrastare anche i cieli … anche questi erano stati dominati pazientemente da Angelus e Darla.
    Drusilla aveva ricevuto una nuova educazione. Ogni pianto le valeva uno schiaffo sulle mani, ogni crisi una settimana di digiuno. Drusilla aveva imparato a dissimulare i sintomi, a controllare le paure che la assalivano di giorno, quando dormiva sola nella stanza delle fanciulle.
    Non sempre riusciva ad attuare efficacemente le sue tattiche di prevenzione. Nonnina, in particolare, era una grande osservatrice, capace di smascherare anche le bugie più innocenti e i cambi d’umore di Drusilla. Le sue reprimende erano state accolte come simbolo d’amore incondizionato, l’unico amore che Drusilla poteva accettare.
    Angelus era più attento all’estetica. Esigeva grande pulizia da Drusilla e controllava le sue vesti ogni qualvolta dovevano uscire, proprio come un padre premuroso.
    Conduceva anche giochi segreti con Drusilla, quando erano soli nella stanza di lei e le coperte rosa si tingevano di rosso sangue.
    Angelus le schiudeva le lunghe gambe, la accarezzava, e spingeva le dita inumidite dentro di lei sino a farla gemere di sollievo e dolore.
    Drusilla aveva imparato tutti i giochi preferiti del suo sire e sapeva comportarsi da brava bambina la maggior parte delle volte. Sedeva nuda, tra le bambole e le tazze di tè, i capelli acconciati in trecce spesse, i nastri rosa sui polsi, poi si alzava e lasciava che Paparino la facesse soffrire.
    Erano bellissimi i giochi che Paparino inventava.
    La ragazza bionda, tuttavia, non aveva smesso di visitare Drusilla nei sogni.
    La sua presenza era tenue, defilata. Dal sogno in cui era legata ed ingoiava pillole che i camici bianchi le porgevano, non era più accaduta una visione tanto violenta. La ragazza d’oro attendeva, quieta.
    Drusilla aveva imparato ad invocarla nei momenti di sconforto o quando Paparino non aveva voglia di giocare. Specialmente quando Paparino non aveva voglia di giocare. Drusilla rimaneva sola nella sua stanza, il ventre gonfio ed un’incomprensibile insoddisfazione che le prendeva il corpo.
    Allora faceva come Paparino le aveva insegnato: schiudeva le gambe, pizzicava i suoi seni.
    Nel tempo aveva fatto crescere le unghie che le consorelle al convento le avevano tagliato, in segno di umiltà e castigo. Aveva coltivato artigli affilati Drusilla, lame capaci di recidere la pelle delle sue vittime. Con quegli stessi artigli affilati si accarezzava e penetrava sino a sanguinare e piangere di dolore.
    Il dolore non era che un’altra faccia del piacere e il volto del piacere era quello della ragazza d’oro.






    TBC
     
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