LOOKING FOR THE VICTIM SHIVERING IN BED

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  1. FaithLess
     
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    CAPITOLO 3.

    Mi svegliai d’improvviso. Ero per terra tra le sue braccia. Avevo una coperta ben sistemata sopra il corpo nudo. Era stato lui, mi aveva coperto e poi abbracciato. Ricordavo tutto.
    Merda, perché era ancora lì? Pensai di doverlo sbattere fuori di casa.
    Mi alzai senza alcun riguardo verso il suo riposo. Desideravo si svegliasse. Non lo fece.
    Mi diressi con rabbia verso il bagno e m’infilai sotto la doccia gelida. Mi strofinai con odio l’intero corpo.
    Mi sentì violata: lui mi aveva posseduto, avevo avuto me, non solo il mio corpo.
    Le lacrime mi solcarono il viso come tagli profondi. Il mio sguardo rimase impassibile.
    Rientrai nella camera cosi com’ero sotto la doccia. I suoi occhi erano aperti e mi guardavano curiosi.
    “Vedo che non ami neanche gli asciugamani!!”
    “Non amo niente. Adesso lo sai.” La mia collera si riversò tutta in quella frase.
    “Adesso te ne devi andare.”
    “Passerotto è solo mezzogiorno. Il tuo turno è ancora lontano.” Rise “Fammi ritrovare i pantaloni e andrò a valutare l’assortimento di ciambelle del bar.”
    “Ho da fare, non ho tempo per le ciambelle.”
    “Va bene. Prendo il caffè e me ne vado.”
    Si alzò e con calma recuperò i suoi vestiti. In poco tempo fu vestito e tornò fottutamente a parlarmi:
    “Allora te lo prendo un caffè?”
    Ero fuori di me. Che altro voleva? Perché voleva restare? Mi aveva avuto tutta la notte.
    Lo presi per un braccio e lo scaraventai sull’uscio sbattendogli la porta in faccia.
    “Passerotto. Ti sei svegliata di cattivo umore. Probabilmente non ami nemmeno il risveglio. Ci vediamo più tardi.” Mi urlò da dietro la porta.
    Percepii i suoi anfibi sul ballatoio di legno allontanarsi. Certamente andava a consumare soddisfatto la sua merdosa ciambella.
    Cercai disperatamente in cucina un goccio di caffè.
    Affranta mi vestì alla meglio e controllai dalla finestra che la sua moto non ci fosse più. Tirai un sospiro di sollievo e aprii la porta.
    Per terra vi trovai un sacchetto di carta bianco. Mi chinai per raccoglierlo mentre i miei pensieri si fecero confusi.
    All’interno c’era un caffè caldo e tre ciambelle diverse. Scaraventai tutto sul tavolo e sbattei la porta. Mi rannicchiai in terra, con le mani mi tenevo i capelli. Avvertivo i miei denti stridere, tanta era la foga con cui serravo il morso. Tirai un pugno sul muro. Delle ferite si formarono sulle mie nocche poco sopra alla scritta RAGE.

    Fanculo, ormai il porco se n’era andato. Non l’avrei più rivisto, aveva avuto ciò che voleva. I suoi modi viscidi non lo rendevano diverso dagli altri. Aveva cercato sesso e sesso aveva trovato. Il resto era una recita con cui si sentiva importante. Ne ero certa, o almeno cercavo di convincermene.
    Il mio sguardo tornò spavaldo, sul tavolo il caffè si era un po’ rovesciato, afferrai quello che era rimasto nel bicchiere e lo trangugiai nervosamente, così come le ciambelle.

    Mancava un’ora all’inizio del mio turno, decisi di farmi una passeggiata nel tempo che avevo a disposizione. La sigaretta che mi fumai nel tragitto mi ricordò il suo odore. Mi sentì di nuovo sporca. Sputai in terra e proseguì.

    Al lavoro era una serata tranquilla e fortunatamente l’inglese non si fece vedere.
    Guardavo un gruppo di ragazzi bere e scherzare tra loro e provai il volta stomaco. Immaginai i loro sconci pensieri e le reazioni che avrebbero avuto se li avessi dominati tutti, per una notte. Scacciai via quel programma dalla mente, ero stanca e volevo stare da sola.

    Chiudemmo il locale, il proprietario mi pagò e mi comunicò che avrei lavorato quattro sere a settimana, dal giovedì alla domenica. Mi avrebbe pagato a serata ed in nero. Prendere o lasciare.
    Accettai.
    Al ritorno decisi nuovamente di camminare, era una serata mite. Provai un gran piacere nel guardare il quartiere avvolto nel buio. Mi tornava alla mente Boston, quand’ero bambina.

    Con mia madre camminavamo sempre di notte per tornare verso casa dal suo lavoro. Lei lavorava in un night. Un posto orribile, squallidissimo, ma al tempo mi sembrava un paradiso. Le colleghe di mia madre mi volevano bene ed ognuna di loro mi ha insegnato qualcosa. Tutte avevano fatto altro nella loro vita prima di finire lì, ad assecondare perversioni di vecchi maiali.

    Agli occhi della bambina che ero sembravano tutte bellissime, erano truccate e vestite di pelle, avevano gioielli e guanti di pizzo. Solo ora riuscivo a vedere la volgarità dei loro trucchi e gli strappi rammendati nei loro vestiti. I loro gioielli erano solo patacche di plastica e i loro guanti, logori e sporchi, erano di un pizzo scadente.
    Quello comunque fu il periodo più felice della mia vita, mio padre se n’era andato ed io ero sola con mia madre.
    In quelle notti lei mi teneva per mano e mi sentivo protetta. Non sapevo che quella sensazione mi sarebbe mancata così, da adulta e non sapevo neanche quanto mi sarebbe divenuto familiari l’odore pungente che aveva mia madre addosso ogni notte.

    Ricordo ancora la prima volta che lo risentì sulla mia pelle, avrò avuto quindici anni sì e no ed ero già scappata di casa da un po’. Vivevo con altri ragazzi come me in un palazzo abbandonato alla periferia di Boston.
    Con quei ragazzi scoprì la vita notturna, ed una sera ubriaca feci goffamente sesso con uno di questi. Al mattino sentì l’odore di mia madre provenire dal mio corpo e capì: era odore di sudore, sesso e tanto alcool.

    La vista della mia pensione mi riportò al presente. Una volta nella mia stanza, mi spogliai completamente, presi una birra ghiacciata e me la feci rotolare sulla pelle calda. Sentì un brivido di piacere. Mi sedetti sul davanzale della finestra. Scostai un tantino la tapparella in modo da spiare il piazzale. La notte stava lasciando il posto al dannato giorno. Mi scolai la birra e fumai una sigaretta mentre il sole che saliva mi segnalava il momento di dormire.


    Mi svegliai poco dopo le due di pomeriggio. Avevo una fame incredibile. Mi rimisi i vestiti della sera prima. Nella tasca dei jeans trovai un mucchietto di banconote, ne gettai la maggior parte in un cassetto che chiusi a chiave, le restanti le rinfilai insieme alla chiave nella tasca.
    Raggiunsi il bar ed ordinai caffè e uova con pancetta. Mi presi molto tempo per mangiare, guardavo tutta la gente che si fermava nel piazzale e sentivo i loro discorsi, mi tenevano compagnia.
    Lasciai i soldi contati sul tavolo ed uscii.
    Indugiai di fronte al mini-market del proprietario della pensione. “Al diavolo” pensai entrando. Camminai velocemente tra gli scaffali, presi delle birre, patatine e del cibo in scatola. Una volta al bancone pagai e mi feci riattivare l’acqua calda.

    Poggiai la busta sul tavolo della mia stanza e infilai le birre nel frigo, mi spogliai e mi feci una doccia calda. Una dolce armonia s’impadronì di me. Era una giornata fantastica. In più era lunedì e non dovevo lavorare. Un sorriso timido fece capolino sul mio viso.

    Mi legai i capelli con una molletta e m’infilai ancora umida una canottiera ed un paio di culotte neri. Mi misi in bagno a lavare i vestiti sporchi nel lavandino, li strizzai per bene e li attaccai in un filo che avevo fatto passare tra la doccia e lo specchio del bagno.
    Soddisfatta, mi stappai una birra e mi accesi una sigaretta, quando all’improvviso sentì bussare alla porta.
    Non aspettavo nessuno e quindi decisi di non aprire. Il bussare si fece insistente ed una voce fottutamente familiari mi urlò:
    “Dolcezza, sei in casa? Al locale mi hanno detto che oggi non lavori… ho preso un po’ di pollo.”
    Collera ed eccitazione si mescolarono, “perché mai questo stronzo non mi lascia in pace?” mormorai tra me e me.
    “Che vuoi?” questo lo urlai
    “Te l’ho detto ho preso del pollo, pensavo mi aiutassi a finirlo.”
    “Non ho fame”
    “Perché non mi apri? Non mi dire che non ami neanche il pollo?!” faceva il simpatico
    “Ho da fare”Tagliai corto.
    “Ti sono piaciute le ciambelle l’altra mattina? Pensavo avresti voluto ringraziarmi e sono venuto per dartene la possibilità, passerotto.”
    Esausta spalancai la porta. Lui mi guardò sorridente, i suoi occhi scivolarono velocemente sul mio corpo poco vestito e tornarono insistentemente sui miei occhi.
    “Vedo che sei tutta intera dopo la scorsa notte. Ho pensato di averti fatto male. Ho visto com’eri arrabbiata al mattino e volevo chiederti scusa. Sono stato un animale. Mi era sembrato ti piacesse, sicuramente mi sbagliavo.”
    “Grazie per le ciambelle che non volevo. E smettila di preoccuparti per me. Sto benissimo e non mi hai fatto nulla. Pensi davvero di essere riuscito a farmi qualcosa che io non volessi?!”
    “Allora che avevi la mattina?”
    “Ma cosa t’importa?”
    “Non lo so… però m’importa.”
    “La scorsa notte tra noi c’è stato sesso e nient’altro. Ti volevo e ti ho avuto, fine della corsa.”
    “Sarà… ma io, bambolina, l’altra notte ti ho visto fremere sotto le mie mani, ho visto le tue mani stringere le mie. E mi dispiace ma non ti credo. Tu mi vuoi anche adesso, non meno di quanto ti voglia io.”
    Quelle parole furono come uno schiaffo in pieno viso. Mi sentì una bambina, mi vergognavo e allo stesso tempo avrei voluto mi stringesse forte. Il mio sguardo probabilmente si fece impaurito, avrei voluto che entrasse. Strinsi forte i pugni sotto il suo sguardo indagatore. Non ebbi la forza di controbattere e con un filo di voce lo pregai:
    “Adesso va via. Lasciami sola.”
    Piegò leggermente la testa all’indietro scrutandomi, sembrava voler dire qualcosa ma la sua bocca si bloccò socchiusa, piegò la testa da una parte e strinse gli occhi. Passò qualche secondo o di più non saprei, il tempo sembrava essersi infranto dinanzi ai suoi occhi.
    “Come vuoi. Per oggi me ne vado. Faith. Ma tornerò.”

    Si rigirò velocemente su se stesso e si diresse verso la moto. Non riuscii a staccargli gli occhi di dosso. Mi guardò ancora una volta con aria di sfida mentre accendeva la moto. Rimasi a fissarlo mentre percorreva lo stradone finché non scomparve all’orizzonte.

    Il cuore mi batteva fortissimo, mille dubbi sì impadronirono del mio pensiero. Probabilmente avrei dovuto farlo entrare e sbattermelo come si deve fin quando non mi avrebbe implorato di smettere. Così avrebbe smesso di credere che possa volere da lui qualcosa di più del suo corpo.
    Decisi che se fosse tornato quello sarebbe stato il mio comportamento.

    ***

    CAPITOLO 4.


    Me ne stavo impalato a guardarla, mentre accendevo la mia moto, lei era appoggiata sullo stipite della porta, aveva addosso solo una canottiera aderentissima nera, si potevano vedere i segni dei capezzoli e la curva del suo corpo all’altezza della vita. Le sue gambe nude erano lunghe e bellissime, forse la notte precedente non mi ero accorto di quanto lo fossero. La sua bellezza mi confondeva.
    Sentivo la rabbia pian piano trasformarsi in vergogna.
    “Stupido Wlliam” pensai “Come vuoi. Per oggi me ne vado. Faith. Ma tornerò.” Mormorai quella frase più e più volte, mentre la strada mi scorreva davanti.
    Mi chiedevo cosa diavolo mi fosse saltato in mente. Minacciare una ragazza perché non mi metteva il tappeto rosso davanti casa come avrei voluto. Ero il solito idiota.
    Com’ero potuto tornare da quella stupida sgualdrina dopo che mi aveva letteralmente buttato fuori di casa.
    Che diavolo mi passava per la mente. Avevo fatto sesso con lei e questo doveva bastarmi. Non ero il tipo da relazione seria, perché la cercavo proprio con una come lei.

    Chi volevo prendere in giro, ero un sentimentale, lo ero sempre stato. Dalle ragazze mi facevo travolgere come dalle slavine.
    Ero arrivato a New York con l’intento di farla finita. Per qualche tempo aveva funzionato, rimorchiavo queste ragazze stupide nei locali, me le portava a letto, sorbendomi un po’ delle loro chiacchiere idiote e poi addio. Chi si è visto si è visto.

    Con lei era iniziato uguale, mi sembrava una come tante. Molto attraente, davvero una bomba, credevo fosse vuota e stupida come le altre.
    Avevo notato come si atteggiava da regina del sesso e questo mi aveva divertito.
    Credevo che avrei potuto smontarla, insomma sarebbe stato un gioco divertente. Ne avevo incontrate a dozzine di bambine spaventate che si atteggiavano a donne vissute.
    Avevo supposto che fosse così anche per lei, una di quelle che puoi impressionare facilmente; ti regalano una notte in cui ti senti un signore e poi si dimenticano velocemente.
    Invece già arrivati nel suo appartamento, tutto aveva preso una strana piega.

    La ragazza non parlava per niente, non era una recita per sentirsi importante, non aveva alcun interesse nel comunicare. Pensai che fosse una fortuna, avremmo avuto più tempo per le cose serie ed io non avrei dovuto fingere di ascoltare.

    Nel sesso poi avevo sentito la sua rabbia. Era autentica ed era tanta. Ne fui quasi sopraffatto, sentivo il suo corpo chiedere aiuto mentre il suo sguardo e le sue parole mi respingevano.
    La sua violenza mi travolse, fin quasi a stordirmi, quando riuscii a domarla avvertii come una resa. Un animale selvaggio che mestamente si abbandona al suo soggiogatore.

    Nei suoi modi selvaggi credevo di percepire una dolcezza profonda, candida, come di una bambina. Sembrava essere stata serbata da lei nel luogo più profondo dell’anima così da lasciarla inviolata ed incolta.
    Fino a quella notte in cui aveva trovato un pertugio ed era affiorata, guardandomi attraverso i suoi occhi con la stessa innocenza infantile di quando lei vi aveva rinunciato per sempre, imprigionandola.

    Dannazione. Non riuscivo a smettere di pensarla, mi venivano alla mente tutte quelle stronzate da poeta fallito. Lei era solo una stronza, questa era la verità, non nascondeva nulla di dolce al suo interno, sapeva perfettamente quanto fosse pericolosamente attraente e, come tutte le stronze, lo usava a suo vantaggio.
    Chissà quanto aveva goduto a trovare uno scemo passionale come me, che si era sciolto ai suoi piedi come burro.
    Un sorriso mi solcò il viso, mentre parcheggiavo la moto, goduto, aveva goduto, di quello almeno ero certo.
    Era stata una scopata memorabile anche per me. Avevo sentito fremere la sua pelle al mio tatto e i suoi gemiti che m’imploravano di non fermarmi mai.
    Ricordavo l’orgoglio che avevo provato quando lei si era lasciata possedere, come un generale che sbaraglia l’armata nemica, io avevo abbattuto il suo muro di cinta e l’avevo avuta. Avevo vinto la battaglia ed avevo avuto lei prigioniera per una notte.

    Arrivai davanti alla mia casa, il tragitto dalla sua pensione alla mia cantina era davvero breve.
    Scesi le scalette, accanto all’ingresso principale del palazzo, che portano nel mio seminterrato o più precisamente completamente-interrato, insomma la mia cantina.

    Poggiai la giacca all’ingresso e mi diressi verso il frigo, vi riposi l’avanzo del maledetto pollo e ne estrassi una birra. Mi lasciai andare sulla mia comodissima poltrona, un vero affare al mercato dell’usato in cui avevo acquistato in sostanza l’intero arredamento. Sorseggiai pensieroso, dovevo pianificare la prossima mossa, se ero in guerra, allora avevo bisogno di strategia.

    Mi vennero alla mente due possibilità: scordarmela per sempre, la più sensata e meno pericolosa, quindi non andare per un po’ al locale e dimenticarla del tutto come con le altre; oppure andare al locale la sera stessa.

    Optai per la seconda ipotesi.
    Che cosa avrei fatto una volta lì? Lei era stata chiara non voleva avermi tra i piedi, eppure avevo intravisto un cedimento nei suoi occhi, forse lo avevo solo immaginato. Dovevo saperne di più, costringerla ad uscire allo scoperto.
    Decisi che sarei andato la sera stessa al locale ed avrei attaccato bottone con la prima sgualdrina a tiro, avrei scrutato la sua reazione e deciso il resto del da farsi.
    Andai a letto abbastanza rincuorato dalle mie decisioni.

    Mi alzai dal letto a metà mattinata, mi lavai il viso e sorseggiai del caffè non fresco, lo avevo fatto il giorno prima. Sgranocchiai un biscotto e mi vestii distrattamente, velocemente presi un fagotto posato su un tavolinetto e mi diressi alla moto.
    Arrivai al mio lavoro, parcheggiai, scesi, attraversai le moto che erano parcheggiate nel vialetto. Quel posto aveva sempre un’aria tetra, probabilmente era dovuto alla somiglianza con una discarica o alla gran quantità di lamiera che era sopra al tetto dell’edificio, ed anche tutto intorno.

    Un bel cane venne a farmi le feste,
    “Briciola, come stai? Felice di vedermi?”
    Il cane continuava a saltare e a leccarmi, stravedeva per me, forse per tutte le coccole che le facevo o perche di tanto in tanto le portavo qualche prelibatezza che scartavo dai miei pasti.

    Il mio splendido momento di coccole fu interrotto dalla voce adirata del suo proprietario.
    “Inglese maledetto. Ti sei fatto vivo. Non ti pago per presentarti quando ti pare. Sono due ore che aspetto quel fanale di merda. L’hai trovato almeno?”
    “Non esagerare nei saluti. So che sei felice di vedermi. Soprattutto perché sto per dirti che il vecchio Spike non solo l’ha qui con sé, ma ha trovato il fanale originale, Harley 1975 o 76 non cambia…stesso modello SX 175. Ho preso anche gli specchietti, il fanale posteriore, il porta targa ed anche il carburatore.”
    “Fottuto ladro. Dove l’hai rubati? Non m’interessa, quanto vuoi per tutto?”
    “Cento dollari, ma il carburatore è a parte, non so se te lo vendo. Vedo chi mi offre di più, è un affarone.”
    “Canaglia che non sei altro. Mai fidarsi di voi adoratori della regina. Duecento dollari e mi dai tutto.”
    “Due e cinquanta e ti ci aggiungo anche un paio di stop.”
    “Due e trenta e non provare ad alzare, sennò ti prendo a calci in culo la prossima volta che metti piedi qui.”
    “Andata. Ho tutto qui tranne il carburatore, te lo porto domani in giornata. Te paghi adesso in contanti però.”
    “ Fa che non mi stai inculando. Adesso sbrigati che c’è del lavoro per te. Un’altra Harley del paleolitico, il tipo che l’ha portata paga bene e dice che ci tiene molto. Io non so dove metterci le mani, come la tocchi si smonta tutta per quanto è arrugginita. Vedi di usare le tue manine d’oro per farla ripartire. Poi magari vedi se ci possiamo cambiare qualche pezzo così, ci alziamo parecchi soldi. Vedi, se mi fai un bel lavoretto, come ti pago bene stavolta.”
    “Ok, ok, tranquillo sai che con le pollastre arrugginite sono il migliore, due carezze e si lascerà andare, il motore tornerà a rombare come nuovo.”
    “Bella questa, cammina e vai a guadagnarti i soldi.” Sentivo la sua risata protrarsi mentre io srotolavo il fagotto che avevo in mano. Ne uscirono tutti i pezzi della moto che avevo saccheggiato la sera prima, li raccolsi e li posai davanti al suo sguardo curioso.
    Presi la tuta che li teneva e me la infilai sopra i pantaloni. Mi tolsi la giacca e la appiccai sulla mia moto, allacciai la tuta fin sotto il mento e velocemente mi recai dalla mia paziente.

    Scrutandola bene notai che, in effetti, era davvero mal ridotta. La ruggine si era impadronita di gran parte dell’intelaiatura e probabilmente il carburatore era ingolfato. Era antica, degli anni sessanta, una Sportster 883, il serbatoio era sicuramente stato cambiato in seguito, infatti aveva stampato il simbolo con AMF dinanzi al marchio dell’Harley perciò era senza dubbio posteriore al ’69 . Era strepitosa, davvero una moto bellissima, il tempo la rendeva solo più interessante e misteriosa.

    Ci sarebbe voluto molto prima di farla ripartire, ma ci sarei riuscito. Avrei dovuto cambiare parecchi pezzi. Cominciai così a smontarla delicatamente per cercare di capire e memorizzare tutti i pezzi che mi dovevo procurare. Ci persi parecchie ore, non mi resi conto per niente del tempo che passava finché non mi accorsi che si era fatto buio.
    Andai da Haward, era così che si chiamava il grassone. Era uno stronzo, ma una buona persona con cui lavorare. Era più di un anno che stavo lì, non avevo orari e venivo pagato a cottimo. Aggiustavo moto d’epoca, Harley in particolare e trovavo pezzi di ricambio che rubavo in giro. Lui cercava sempre di pagarmi meno, ma aveva bisogno di me.
    Non ero un tipo affidabile e indubbiamente ero irritante oltremodo ma ero leale e soprattutto sapevo prendere con dolcezza le vecchie carcasse e con determinazione e pazienza le rimettevo a nuovo.

    “Allora, io vado. La bambina mettila al coperto. Ha già sofferto abbastanza, deve averne passate tante, ha tutti i segni addosso dei maltrattamenti. Ci vorrebbe un modo per togliere le moto alle persone con poco cuore.”
    “Inglese ma quante chiacchiere?! Insomma dimmi, si può aggiustare? Quanto ti ci vuole?”
    “Aggiustare si può aggiustare, ma mi ci vogliono almeno una quindicina di giorni e parecchi pezzi di ricambio perciò dì al tipo di preparare parecchi verdoni, se ci tiene davvero.”
    “Vai tranquillo ci penso io. Te cerca di sbrigarti. Ci vediamo domani e non bere fino a pisciarti sotto stanotte.”
    “Fottiti. Vedrò cosa posso fare.” Mi stavo sfilando la tuta e rimettendo la giacca, sentivo la sua risata grassa come lui che si allontanava, probabilmente il vecchio stava andando al cesso. Diedi qualche carezza alla cagna e saltai in sella, prima tappa casa, doccia e poi dritto al locale.
     
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