LOOKING FOR THE VICTIM SHIVERING IN BED

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    Ancora un altro tentativo... ;) forse stavolta ho davvero fatto il passo più lungo della gamba :huh:.. ho cercato di raccontare due tra i personaggi più complicati del Buffyverse (a mio avviso): Faith e Spike.
    Li ho entrambi estrapolati dai loro rispettivi ruoli di cacciatrice e vampiro, cercando di evidenziare e raccontare in questo modo i loro lati umani. Vi avverto che è uno studio sui personaggi, nel senso che, mentre ve li racconto, cerco di studiarli ed approfondirli man mano che gli eventi li travolgono.
    Ho cercato anche e soprattutto di dare corpo (e giustizia per me :P) alla figura di Faith, la cacciatrice ribelle, immaginandola e raccontandola come donna, ragazza ed amante.
    Spero di non stravolgere i personaggi e se lo faccio vi prego tutte di dirmelo.
    Buona lettura e mi raccomando commentate, ho tanto bisogno delle vostre sagge opinioni e dei vostri consigli. :D

    Disclaimer: i personaggi utilizzati non appartengono a me ma alla mutant enemy ed a Joss Whedon e a chiunque ne possegga i diritti. Li utilizzo a scopo dilettevole, molto dilettevole. :P
    Universo: AU - tutti umani
    Bollino: giallo-rosso
    Chapters: Faith, Spike e forse anche qualche altro.
    Generi: introspettivo, malinconico, erotico e probabilmente un po’ angst :P

    Looking for the victim shivering in bed

    buffy718dirtygirls2


    DRIIN DRIIN – DRIIN DRIIN – DRIIN DRIIN

    Maledizione. Che diavolo è… cazzo già la sveglia.

    Allungai il braccio per cercare di spegnere quel frastuono, il mio movimento fece cadere delle cose dal comodino. Sembravano cd e forse qualche lattina vuota. Al diavolo.
    La afferrai. La maledetta continuava a trillarmi tra le mani. Non trovavo il pulsante.

    Finalmente, silenzio.
    Guardai l’ora erano le 16.
    Avevo un gran mal di testa. La notte precedente l’avevo passata a lavorare in una discoteca. Non mi era piaciuto, preferisco i locali con musica dal vivo. Mi piace scatenarmi, ma la musica deve essere buona. Quella sera dovevo lavorare in un pub, una serata punk-rock, mi piaceva come idea. Almeno mentre sfacchinavo, avrei sentito buona musica.
    Mi alzai velocemente, tirai su le tapparelle della mia unica finestra.
    Vivevo in una pensione da parecchi mesi ormai, speravo di trovare dei lavori meno saltuari così avrei potuto permettermi un monolocale in un posto leggermente meno malfamato.
    Chissà cosa credevo il giorno che ero arrivata in quella schifosa città.
    La grande mela, un paradiso per chi non vuole più essere aiutato da nessuno, per chi vuole passare inosservato e continuare a maltrattare la propria vita. Sì perché anch’io come tutti gli altri ero una fuggiasca. Fuggita da tutte le persone che dicevano:
    “Uh poverina, che vita difficile. Povera ragazza.”
    Povera ragazza un cazzo, maledetti ipocriti.

    Non avevo bisogno di nessuno.

    In bagno cercai di lavarmi con l’acqua fredda, quella calda si pagava a parte e quella settimana avevo lavorato poco. Il mio corpo magro e nerboruto s’irrigidiva sotto gli schizzi gelidi della doccia. La mia carnagione diveniva ancora più chiara.

    Andai in cucina, nuda e bagnata, presi un pochino di pizza fredda. La birra ghiacciata era la cosa migliore di quei miei frugali pasti. Alle 18 iniziavo il nuovo lavoro, il pub non era molto lontano dal mio alloggio. Sarei andata a piedi, al massimo avrei preso la metro al ritorno, quando potevo essere stanca.
    Il south bronx può essere un quartieraccio anche per me, se si è troppo stanchi.

    Allora: jeans, maglietta aderente nera, anfibi, cinta di pelle con le borchie ed ero pronta.

    Lo specchio mostrava la mia immagine ero magra, mora, viso eccitante. La maglietta a canotta metteva in bella mostra il mio braccio sinistro completamente tatuato. Sulla spalla avevo incisa una pin-up, la migliore di tutte: Bettie Page. Era in una posa provocante, con frustino, vestita interamente di pelle nera.
    Nell’avambraccio avevo un intreccio di rovi, con rose rosse e spine, dal quale uscivano delle farfalline insanguinate che sembravano arrancare verso Bettie. Sulle nocche delle quattro dita della mano destra avevo scritto RAGE.
    Li avevo fatti anni prima, quand’ero molto più piccola ma non mi ero pentita. Facevano parte di me.

    Spazzolai i miei capelli sciolti e mi truccai. Nero sugli occhi, rossetto rosso scuro sulle labbra. Non volevo infrangere questo stereotipo: Le ragazze cattive vestono così!!!

    In strada l’aria era fresca, maggio era sempre così a New York, il giorno caldo, la sera fredda. La mia giacca di pelle mi difendeva appena dal vento. Avrei voluto portarmi una felpa. Chiaramente dovetti farne a meno e arrangiarmi bevendo qualche drink in più.
    Quel locale era la prima volta che mi chiamava per lavorare, speravo di riuscire a fare una bella impressione. Avevo bisogno di un lavoro regolare. I soldi erano sempre di meno e non sapevo quanto ancora sarei riuscita a mantenermi.
    E’ buffo che nonostante tutto questo, in quella fottuta città mi sentissi protetta. Casa mia era l’inferno, lì era una specie di purgatorio.
    Immaginavo che il paradiso non fosse per gente come me, quindi quello era il meglio che potevo. Potevo migliorarlo, era tutto nelle mie mani, come sempre da sola me la sarei cavata.

    Arrivai in orario a lavoro.
    Sebbene servire alcolici ai tavoli non è la mia passione, non è nemmeno il peggiore dei lavori che avevo fatto in precedenza.
    Scaricare casse nei magazzini fu il più faticoso: ambiente maschilista, sforzo continuo e colleghi che ti vogliono portare a letto; cosa che alcune sere può anche essere ben accetta.
    Portiere notturno in una fabbrica, il più noioso. Non mi dispiaceva nonostante la noia, lasciava il tempo per pensare ai fatti miei, forse anche troppo. La paga non era male. Purtroppo la fabbrica chiuse i battenti dopo alcuni mesi che ero lì. Fanculo, solita sfiga.
    La baby-sitter non faceva per me. Una volta l’avevo fatta per un moccioso nei quartieri alti. Un disastro, quel maledetto faceva un capriccio dopo l’altro. Piangeva. Mi guardavo intorno, lui aveva tutto, o almeno tanto, tantissimo. Avrei voluto dargli uno schiaffo forte.
    Decisi che non faceva per me, tanto la madre non mi avrebbe mai richiamato.
    Quando ero arrivata, mi aveva guardato come il diavolo. Fortuna che mi ero vestita di bianco, avevo legato i capelli con una treccia e non mi ero truccata. Forse ce l’ho stampato in faccia, il mio passato, da dove vengo.

    Intanto il servizio andava abbastanza bene. Ero brava nel portare vassoio e ricevere pacche sul culo. Sembravo nata apposta.
    I drink iniziavano a fare effetto, per fortuna, ora tutto sembrava più divertente, sia le tastate che gli occhi dolci, o le occhiate nella scollatura, tutto la stessa storia, tutti lo stesso pensiero: scopare con me. Qualcuno sarà accontentato, certo sarò io a decidere.
    “Per stasera mi sa che passo, nessuno di questi scemi mi porterà a letto.” Pensai quando una voce attirò la mia attenzione:
    “Bourbon, un bicchiere, passerotto”
    Mi girai di scatto, come osava parlarmi così? Pensai al lavoro e a quanto mi serviva.
    “Glielo porto subito” Il tipo mi guardava fisso. Non era male, bella giacca di pelle, capelli ossigenati, ricordava vagamente Billy Idol, il che non mi dispiaceva.
    “Dammi pure del tu, mora.”
    Lo guardai ammiccante ed andai a prendere la sua ordinazione.
    Gliela portai appena fu pronta, il tipo m’intrigava, a letto ci sapeva fare lo vedevo da come muoveva le labbra.
    “Ecco, tieni.”
    “Grazie bambola. Sei nuova vero?!”
    “Sì, serata di prova.” Il suo sorriso si fece ancora più interessante.
    “Se ti metto una buona parola, posso riaccompagnarti a casa?” Nel dirlo gli si dipinse un’aria sfacciata, aprì un tantino le labbra e appoggiò la lingua al palato, nel farlo mi fissava.
    Cristo santo, era la mia serata, avrei accentato, non ci perdevo nulla. Male che andava non mi avrebbe aiutato, oppure magari avrebbe potuto, così avrei preso due piccioni con una fava, anche se era molto più probabile solo la fava….
    “Dipende da quello che vuoi fare una volta che mi hai accompagnato” Gli gettai un’occhiatina maliziosa e lentamente mi morsi il labbra inferiore.
    “Wow… vado subito a parlare bene di te al proprietario. Magari quest’ultima parte la lascio fuori dal curriculum.”
    Afferrò il suo bicchiere e si diresse al bancone. Lo osservavo con la coda dell’occhio mentre continuavo a servire ai tavoli. Stava davvero parlando con il proprietario e m’indicavano. Dubitavo che mi stesse aiutando davvero, conosco il tipo come lui, ne hanno una diversa a sera, come me d’altronde. Non hanno bisogno di aiutare nessuno.
    Arrivai a fine turno. Lo avevo perso di vista ma non mi preoccupavo se davvero era un predatore, sarebbe stato appostato ad attendere. Andai dal proprietario per il pagamento.
    “E’ andato tutto bene?”
    “Sì, al cento per cento.”
    “Bene, il tuo amico mi ha detto che ne hai bisogno e sei stata brava stasera. Torna anche domani e vedremo poi che turni ti farò fare in futuro.”
    Brutto porco come osava dire che io avevo bisogno. Maledizione.
    “Grazie” dissi infine stringendo i denti, tanto da farlo sembrare un ringhio.
    “Allora domani stessa ora.”
    “Perfetto a domani”.
    Le mani mi tremavano per la rabbia e l’umiliazione. Era stata un’idea pessima farmi aiutare. Gettai il vassoio nel retro del bancone e mi diressi verso l’uscita secondaria. Una volta contati, infilai i soldi nella tasca dei pantaloni e presi una sigaretta. Tastai le tasche della giacca in cerca dell’accendino. Una fiamma mi si accese dinanzi.
    “Dolcezza, la carrozza è pronta”
    Lo guardai in cagnesco, ma i suoi modi mi ammaliavano, un sorriso tradì i miei pensieri. La cosa lo deve aver divertito, perché un guizzo gli illuminò gli occhi. Mi portò verso un Harley un po’ vecchia, salì in sella ed aspettò in silenzio che finissi la sigaretta.
    La lanciai dall’altra parte del marciapiede, mi fece un cenno:
    “Dove la porto signora?”
    “338 East street, South Bronx.”
    “Mi manca solo il tuo nome.” Mi guardava aspettando.
    “Faith.” Feci per salire dietro di lui sulla sella, quando rispose sorpreso:
    “Il mio lo vuoi sapere?”
    “Non particolarmente.”
    “Allora Spike può bastarti.”
    “Immagino di sì”
    In tutta risposta fece rombare il motore e partii. Il tragitto fu breve ma il suo odore riuscì a colpirmi, sapeva di quello che per me era un uomo: Bourbon, sigarette, cuoio e un vago sentore di benzina.

    Edited by FaithLess - 23/5/2013, 17:28
     
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    ed ecco subito subito il secondo..

    CAPITOLO 2.


    Arrivati davanti alla mia pensione, gli diedi uno sbuffo sulla spalla e gliela indicai. Si fermò, mentre accavallettava la moto, riprese a chiacchierare:
    “Così vivi in una pensione…Devi essere da poco in città?”
    “Da più di un anno.”
    “Allora sei più sola di quanto pensassi. Hey piccola non ce l’hai una famiglia?”
    “Non faceva per me. Ti assicuro che quella pensione è la cosa più vicina ad una casa che io abbia mai avuto.” Non sapevo perché gli avevo detto questo, non mi piace parlare di me. E poi sto stronzo come osava chiamarmi piccola, tra un paio d’ore vedrai cosa ti avrà fatto la tua piccola. Brutto porco. Con lo sguardo risentito aggiunsi “E’ poi sentiamo, tu dove abiti?”
    “Be…io…abito, tecnicamente in una cantina, ma è molto chic.”
    “Non sono l’unica che capisce le persone con uno sguardo. Quanto tempo è che sei in America? Inglese.”
    “Ok, il mio accento non ti è sfuggito. In effetti, sono di Londra. E sono in città da un po’ più di te. Abbastanza da aver superato la pensione ed essere arrivato in una cantina tutta per me.”
    Rise cinicamente di se stesso. Contagiò anche me, la mia risata era un po’ arrugginita.

    Lo invitai ad entrare, la stanza era un disastro. Doveva essere così da settimane ma me ne resi conto solo in quel momento. Il letto era sfatto e pieno di vestiti, per terra c’era di tutto, dai tanga, fino a cartoni unti di pizza e bottiglie vuote di birra. In cucina c’erano bottiglie ovunque.
    “Non sei un’amante dell’arredo?”
    “No, direi di no. Non amo la casa.” Spostai un involucro di plastica vuoto, di una vecchia cena cinese e gli feci cenno di sedersi.
    “Vediamo, posso offrirti della birra e…” Guardai nel frigo “una carota, un po’ di maionese e della vodka. Mi spiace, non amo nemmeno la cucina.”
    “Finora ho scoperto cosa non ami, credi che riuscirò a scoprire cosa ami prima di andar via?” il suo sguardo era penetrante, le sue labbra rimasero sospese in una smorfia di malizia.
    “Mi piacerebbe vederti provare.” Quel gioco iniziava a piacermi.
    “Non mancherò. Bourbon ne hai?”
    “No, al massimo vodka.”
    “Vada per la vodka.” Presi dei bicchierini dallo scaffale in truciolato, due uguali non ce n’erano. Altra cosa di cui non mi ero mai accorta. Versai la vodka e brindammo. Bevvi tutto d’un fiato e lui fece lo stesso.
    Era una vodka molto forte, il sapore era pessimo, credo fosse la più economica in circolazione, ma ero abituata, non creò problemi nemmeno a lui, suppongo non fosse la sua prima vodka economica.
    “Allora Faith, cosa ti stai lasciando alle spalle? Da dove vieni?”
    “Boston, mi sono lasciata alle spalle un mucchio di merda. E tu?”
    “Come ti ho già detto vengo da Londra e mi sono lasciata alle spalle la regina, un mucchio di stupide regole borghesi ed un possibile fottuto futuro da impiegato.”
    “Direi che ci conosciamo abbastanza adesso.” Odio la conversazione, non mi fregava niente di quel tipo. Tanto domani non ci sarebbe stato più ed era meglio non sapere nulla.
    “Sì, anche per me può andare. Poi la tua conversazione è davvero fuori allenamento. Possiamo passare alle cose serie, dolcezza.”
    Mi alzai dalla sedia e lentamente mi poggiai sul bordo del tavolo davanti a lui. Con gli occhi vispi mi scrutò tutta, sembrava parecchio interessato alla mia carrozzeria. Mi tolsi la giacca e la poggiai sul tavolo, mostrando i miei tatuaggi, mi sgranchii le braccia con calma, avvicinai il mio viso pericolosamente al suo e gli sussurrai:
    “Allora, te che cosa stai cercando qui, biondo?”
    Si alzò dalla sedia, si parò dinanzi a me. Le gambe le aveva leggermente divaricate, mi sfiorò con un dito i tatuaggi, studiandoli con attenzione.
    “Cerco te.” S’inumidì velocemente le labbra con la lingua, il suo movimento fu quasi impercettibile, molto sensuale.
    Iniziai a giocare con una ciocca di capelli guardandolo un pochino di sguincio.
    “Allora prendimi.”
    Sapevo che mi voleva da morire. Il suo dito dal braccio salì sulla mia chioma e pian piano strinse la mano dietro la mia nuca. Con l’altro braccio mi cinse la vita e mi spinse verso il tavolo. Sentì la sua lingua fare strage della mia e le sue mani dappertutto. Gli infilai una mano sotto la maglietta, i suoi muscoli erano tesi, scolpiti nella roccia, senti un’eccitazione furiosa.
    Iniziai ad accarezzargli il pacco, il tessuto dei suoi pantaloni era ruvido e tirato, sembrava che qualcosa stesse esplodendo lì dentro. L’eccitazione si mescolò con l’orgoglio.
    Le mie mani senza controllo erano sulla fibbia della sua cinta. Mi sfilò la maglietta, slacciò il mio reggiseno con una mano e lo lasciò non curante precipitare al suolo. Infilò la testa fra i seni. La sua lingua setaccio ogni angolo fino alle mie labbra. Mi sollevò prendendomi dal sedere e ci tuffammo nel letto. Si tolse la giacca e la lasciò cadere, così come la sua maglietta, che finì in terra accanto al mio reggiseno. Il suo membro lo avevo estratto dall’abbottonatura aperta dei pantaloni. Volevo averlo dentro, lo desideravo davvero.
    Non era più un gioco, pretendevo quell’uomo dentro di me.
    Le mie labbra trovarono il suo sesso e d’improvviso sentì il suo sapore.
    Mi sfilai rapidamente i pantaloni e gli saltai addosso. Sopra di lui scostai il mio tanga, presi la sua mano, la guidai ripetutamente sulla mia fessura bagnata. Sentivo il suo respiro divenire affannato, la sua bocca era serrata ed i muscoli delle mascelle ingrossati. Mi guardava implorante, i suoi occhi cercavano i miei.
    D’improvviso mi resi conto di non sopportare il suo sguardo, volevo finisse il prima possibile.
    Lo infilai prepotentemente dentro di me ed inizia a cavalcarlo crudelmente.
    Non riuscivo a capire cosa cercasse nei miei occhi e perché si fosse concentrato su di loro, aveva il mio corpo nudo che gli fremeva addosso e lui preferiva guardarmi gli occhi.
    Il mio viso si fece buio, cercai con tutta la violenza che avevo di farlo venire. D’improvviso mi prese per il bacino e mi fermò. Carezzò i miei capelli, mi sorrise con dolcezza.
    “Fottuto bastardo, scopami e basta.” Sussurrai.
    Avrei voluto scansare la sua mano bruscamente e tornare a sbattermelo per poi fiondarlo velocemente fuori di casa ma ero come paralizzata, i suoi modi mi lasciavano spiazzata.
    Prese le mie mani. In quel momento mi accorsi di avergli conficcato tutte e dieci le unghie sui pettorali, aprendogli delle piccole ferite. Le strinse tra le sue, se le portò alla bocca e le baciò.
    Il mio sguardo era attonito, nella mia mente lo imploravo di smettere.
    Si ribaltò sopra di me. Non doveva essere lui sopra di me, quella serata stava andando tutta nel verso sbagliato.
    Continuò a scoparmi, all’inizio dolcemente con movimenti circolare, poi sempre più forte, sempre più brutalmente. La sua furia fu tale da buttarmi per metà fuori dal letto. Appoggiai entrambi i palmi sul pavimento e cercai di contrastare la sua irruenza. Persi ogni battaglia, mi consegnai a lui come una prigioniera, il destino di quella notte era ormai nelle sue mani.
    Mi ritrovai ad urlare il suo nome ancora e ancora. Il mio viso era incandescente e il mio corpo zuppo dei nostri sudori. Lo sentivo ansimare, pulsare, invocare il mio nome. La sua lingua sfiorò la mia pelle in ogni dove. La mia mente si andava dissolvendo, rimase solo il ritmo incessante del nostro desiderio.
     
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    CAPITOLO 3.

    Mi svegliai d’improvviso. Ero per terra tra le sue braccia. Avevo una coperta ben sistemata sopra il corpo nudo. Era stato lui, mi aveva coperto e poi abbracciato. Ricordavo tutto.
    Merda, perché era ancora lì? Pensai di doverlo sbattere fuori di casa.
    Mi alzai senza alcun riguardo verso il suo riposo. Desideravo si svegliasse. Non lo fece.
    Mi diressi con rabbia verso il bagno e m’infilai sotto la doccia gelida. Mi strofinai con odio l’intero corpo.
    Mi sentì violata: lui mi aveva posseduto, avevo avuto me, non solo il mio corpo.
    Le lacrime mi solcarono il viso come tagli profondi. Il mio sguardo rimase impassibile.
    Rientrai nella camera cosi com’ero sotto la doccia. I suoi occhi erano aperti e mi guardavano curiosi.
    “Vedo che non ami neanche gli asciugamani!!”
    “Non amo niente. Adesso lo sai.” La mia collera si riversò tutta in quella frase.
    “Adesso te ne devi andare.”
    “Passerotto è solo mezzogiorno. Il tuo turno è ancora lontano.” Rise “Fammi ritrovare i pantaloni e andrò a valutare l’assortimento di ciambelle del bar.”
    “Ho da fare, non ho tempo per le ciambelle.”
    “Va bene. Prendo il caffè e me ne vado.”
    Si alzò e con calma recuperò i suoi vestiti. In poco tempo fu vestito e tornò fottutamente a parlarmi:
    “Allora te lo prendo un caffè?”
    Ero fuori di me. Che altro voleva? Perché voleva restare? Mi aveva avuto tutta la notte.
    Lo presi per un braccio e lo scaraventai sull’uscio sbattendogli la porta in faccia.
    “Passerotto. Ti sei svegliata di cattivo umore. Probabilmente non ami nemmeno il risveglio. Ci vediamo più tardi.” Mi urlò da dietro la porta.
    Percepii i suoi anfibi sul ballatoio di legno allontanarsi. Certamente andava a consumare soddisfatto la sua merdosa ciambella.
    Cercai disperatamente in cucina un goccio di caffè.
    Affranta mi vestì alla meglio e controllai dalla finestra che la sua moto non ci fosse più. Tirai un sospiro di sollievo e aprii la porta.
    Per terra vi trovai un sacchetto di carta bianco. Mi chinai per raccoglierlo mentre i miei pensieri si fecero confusi.
    All’interno c’era un caffè caldo e tre ciambelle diverse. Scaraventai tutto sul tavolo e sbattei la porta. Mi rannicchiai in terra, con le mani mi tenevo i capelli. Avvertivo i miei denti stridere, tanta era la foga con cui serravo il morso. Tirai un pugno sul muro. Delle ferite si formarono sulle mie nocche poco sopra alla scritta RAGE.

    Fanculo, ormai il porco se n’era andato. Non l’avrei più rivisto, aveva avuto ciò che voleva. I suoi modi viscidi non lo rendevano diverso dagli altri. Aveva cercato sesso e sesso aveva trovato. Il resto era una recita con cui si sentiva importante. Ne ero certa, o almeno cercavo di convincermene.
    Il mio sguardo tornò spavaldo, sul tavolo il caffè si era un po’ rovesciato, afferrai quello che era rimasto nel bicchiere e lo trangugiai nervosamente, così come le ciambelle.

    Mancava un’ora all’inizio del mio turno, decisi di farmi una passeggiata nel tempo che avevo a disposizione. La sigaretta che mi fumai nel tragitto mi ricordò il suo odore. Mi sentì di nuovo sporca. Sputai in terra e proseguì.

    Al lavoro era una serata tranquilla e fortunatamente l’inglese non si fece vedere.
    Guardavo un gruppo di ragazzi bere e scherzare tra loro e provai il volta stomaco. Immaginai i loro sconci pensieri e le reazioni che avrebbero avuto se li avessi dominati tutti, per una notte. Scacciai via quel programma dalla mente, ero stanca e volevo stare da sola.

    Chiudemmo il locale, il proprietario mi pagò e mi comunicò che avrei lavorato quattro sere a settimana, dal giovedì alla domenica. Mi avrebbe pagato a serata ed in nero. Prendere o lasciare.
    Accettai.
    Al ritorno decisi nuovamente di camminare, era una serata mite. Provai un gran piacere nel guardare il quartiere avvolto nel buio. Mi tornava alla mente Boston, quand’ero bambina.

    Con mia madre camminavamo sempre di notte per tornare verso casa dal suo lavoro. Lei lavorava in un night. Un posto orribile, squallidissimo, ma al tempo mi sembrava un paradiso. Le colleghe di mia madre mi volevano bene ed ognuna di loro mi ha insegnato qualcosa. Tutte avevano fatto altro nella loro vita prima di finire lì, ad assecondare perversioni di vecchi maiali.

    Agli occhi della bambina che ero sembravano tutte bellissime, erano truccate e vestite di pelle, avevano gioielli e guanti di pizzo. Solo ora riuscivo a vedere la volgarità dei loro trucchi e gli strappi rammendati nei loro vestiti. I loro gioielli erano solo patacche di plastica e i loro guanti, logori e sporchi, erano di un pizzo scadente.
    Quello comunque fu il periodo più felice della mia vita, mio padre se n’era andato ed io ero sola con mia madre.
    In quelle notti lei mi teneva per mano e mi sentivo protetta. Non sapevo che quella sensazione mi sarebbe mancata così, da adulta e non sapevo neanche quanto mi sarebbe divenuto familiari l’odore pungente che aveva mia madre addosso ogni notte.

    Ricordo ancora la prima volta che lo risentì sulla mia pelle, avrò avuto quindici anni sì e no ed ero già scappata di casa da un po’. Vivevo con altri ragazzi come me in un palazzo abbandonato alla periferia di Boston.
    Con quei ragazzi scoprì la vita notturna, ed una sera ubriaca feci goffamente sesso con uno di questi. Al mattino sentì l’odore di mia madre provenire dal mio corpo e capì: era odore di sudore, sesso e tanto alcool.

    La vista della mia pensione mi riportò al presente. Una volta nella mia stanza, mi spogliai completamente, presi una birra ghiacciata e me la feci rotolare sulla pelle calda. Sentì un brivido di piacere. Mi sedetti sul davanzale della finestra. Scostai un tantino la tapparella in modo da spiare il piazzale. La notte stava lasciando il posto al dannato giorno. Mi scolai la birra e fumai una sigaretta mentre il sole che saliva mi segnalava il momento di dormire.


    Mi svegliai poco dopo le due di pomeriggio. Avevo una fame incredibile. Mi rimisi i vestiti della sera prima. Nella tasca dei jeans trovai un mucchietto di banconote, ne gettai la maggior parte in un cassetto che chiusi a chiave, le restanti le rinfilai insieme alla chiave nella tasca.
    Raggiunsi il bar ed ordinai caffè e uova con pancetta. Mi presi molto tempo per mangiare, guardavo tutta la gente che si fermava nel piazzale e sentivo i loro discorsi, mi tenevano compagnia.
    Lasciai i soldi contati sul tavolo ed uscii.
    Indugiai di fronte al mini-market del proprietario della pensione. “Al diavolo” pensai entrando. Camminai velocemente tra gli scaffali, presi delle birre, patatine e del cibo in scatola. Una volta al bancone pagai e mi feci riattivare l’acqua calda.

    Poggiai la busta sul tavolo della mia stanza e infilai le birre nel frigo, mi spogliai e mi feci una doccia calda. Una dolce armonia s’impadronì di me. Era una giornata fantastica. In più era lunedì e non dovevo lavorare. Un sorriso timido fece capolino sul mio viso.

    Mi legai i capelli con una molletta e m’infilai ancora umida una canottiera ed un paio di culotte neri. Mi misi in bagno a lavare i vestiti sporchi nel lavandino, li strizzai per bene e li attaccai in un filo che avevo fatto passare tra la doccia e lo specchio del bagno.
    Soddisfatta, mi stappai una birra e mi accesi una sigaretta, quando all’improvviso sentì bussare alla porta.
    Non aspettavo nessuno e quindi decisi di non aprire. Il bussare si fece insistente ed una voce fottutamente familiari mi urlò:
    “Dolcezza, sei in casa? Al locale mi hanno detto che oggi non lavori… ho preso un po’ di pollo.”
    Collera ed eccitazione si mescolarono, “perché mai questo stronzo non mi lascia in pace?” mormorai tra me e me.
    “Che vuoi?” questo lo urlai
    “Te l’ho detto ho preso del pollo, pensavo mi aiutassi a finirlo.”
    “Non ho fame”
    “Perché non mi apri? Non mi dire che non ami neanche il pollo?!” faceva il simpatico
    “Ho da fare”Tagliai corto.
    “Ti sono piaciute le ciambelle l’altra mattina? Pensavo avresti voluto ringraziarmi e sono venuto per dartene la possibilità, passerotto.”
    Esausta spalancai la porta. Lui mi guardò sorridente, i suoi occhi scivolarono velocemente sul mio corpo poco vestito e tornarono insistentemente sui miei occhi.
    “Vedo che sei tutta intera dopo la scorsa notte. Ho pensato di averti fatto male. Ho visto com’eri arrabbiata al mattino e volevo chiederti scusa. Sono stato un animale. Mi era sembrato ti piacesse, sicuramente mi sbagliavo.”
    “Grazie per le ciambelle che non volevo. E smettila di preoccuparti per me. Sto benissimo e non mi hai fatto nulla. Pensi davvero di essere riuscito a farmi qualcosa che io non volessi?!”
    “Allora che avevi la mattina?”
    “Ma cosa t’importa?”
    “Non lo so… però m’importa.”
    “La scorsa notte tra noi c’è stato sesso e nient’altro. Ti volevo e ti ho avuto, fine della corsa.”
    “Sarà… ma io, bambolina, l’altra notte ti ho visto fremere sotto le mie mani, ho visto le tue mani stringere le mie. E mi dispiace ma non ti credo. Tu mi vuoi anche adesso, non meno di quanto ti voglia io.”
    Quelle parole furono come uno schiaffo in pieno viso. Mi sentì una bambina, mi vergognavo e allo stesso tempo avrei voluto mi stringesse forte. Il mio sguardo probabilmente si fece impaurito, avrei voluto che entrasse. Strinsi forte i pugni sotto il suo sguardo indagatore. Non ebbi la forza di controbattere e con un filo di voce lo pregai:
    “Adesso va via. Lasciami sola.”
    Piegò leggermente la testa all’indietro scrutandomi, sembrava voler dire qualcosa ma la sua bocca si bloccò socchiusa, piegò la testa da una parte e strinse gli occhi. Passò qualche secondo o di più non saprei, il tempo sembrava essersi infranto dinanzi ai suoi occhi.
    “Come vuoi. Per oggi me ne vado. Faith. Ma tornerò.”

    Si rigirò velocemente su se stesso e si diresse verso la moto. Non riuscii a staccargli gli occhi di dosso. Mi guardò ancora una volta con aria di sfida mentre accendeva la moto. Rimasi a fissarlo mentre percorreva lo stradone finché non scomparve all’orizzonte.

    Il cuore mi batteva fortissimo, mille dubbi sì impadronirono del mio pensiero. Probabilmente avrei dovuto farlo entrare e sbattermelo come si deve fin quando non mi avrebbe implorato di smettere. Così avrebbe smesso di credere che possa volere da lui qualcosa di più del suo corpo.
    Decisi che se fosse tornato quello sarebbe stato il mio comportamento.

    ***

    CAPITOLO 4.


    Me ne stavo impalato a guardarla, mentre accendevo la mia moto, lei era appoggiata sullo stipite della porta, aveva addosso solo una canottiera aderentissima nera, si potevano vedere i segni dei capezzoli e la curva del suo corpo all’altezza della vita. Le sue gambe nude erano lunghe e bellissime, forse la notte precedente non mi ero accorto di quanto lo fossero. La sua bellezza mi confondeva.
    Sentivo la rabbia pian piano trasformarsi in vergogna.
    “Stupido Wlliam” pensai “Come vuoi. Per oggi me ne vado. Faith. Ma tornerò.” Mormorai quella frase più e più volte, mentre la strada mi scorreva davanti.
    Mi chiedevo cosa diavolo mi fosse saltato in mente. Minacciare una ragazza perché non mi metteva il tappeto rosso davanti casa come avrei voluto. Ero il solito idiota.
    Com’ero potuto tornare da quella stupida sgualdrina dopo che mi aveva letteralmente buttato fuori di casa.
    Che diavolo mi passava per la mente. Avevo fatto sesso con lei e questo doveva bastarmi. Non ero il tipo da relazione seria, perché la cercavo proprio con una come lei.

    Chi volevo prendere in giro, ero un sentimentale, lo ero sempre stato. Dalle ragazze mi facevo travolgere come dalle slavine.
    Ero arrivato a New York con l’intento di farla finita. Per qualche tempo aveva funzionato, rimorchiavo queste ragazze stupide nei locali, me le portava a letto, sorbendomi un po’ delle loro chiacchiere idiote e poi addio. Chi si è visto si è visto.

    Con lei era iniziato uguale, mi sembrava una come tante. Molto attraente, davvero una bomba, credevo fosse vuota e stupida come le altre.
    Avevo notato come si atteggiava da regina del sesso e questo mi aveva divertito.
    Credevo che avrei potuto smontarla, insomma sarebbe stato un gioco divertente. Ne avevo incontrate a dozzine di bambine spaventate che si atteggiavano a donne vissute.
    Avevo supposto che fosse così anche per lei, una di quelle che puoi impressionare facilmente; ti regalano una notte in cui ti senti un signore e poi si dimenticano velocemente.
    Invece già arrivati nel suo appartamento, tutto aveva preso una strana piega.

    La ragazza non parlava per niente, non era una recita per sentirsi importante, non aveva alcun interesse nel comunicare. Pensai che fosse una fortuna, avremmo avuto più tempo per le cose serie ed io non avrei dovuto fingere di ascoltare.

    Nel sesso poi avevo sentito la sua rabbia. Era autentica ed era tanta. Ne fui quasi sopraffatto, sentivo il suo corpo chiedere aiuto mentre il suo sguardo e le sue parole mi respingevano.
    La sua violenza mi travolse, fin quasi a stordirmi, quando riuscii a domarla avvertii come una resa. Un animale selvaggio che mestamente si abbandona al suo soggiogatore.

    Nei suoi modi selvaggi credevo di percepire una dolcezza profonda, candida, come di una bambina. Sembrava essere stata serbata da lei nel luogo più profondo dell’anima così da lasciarla inviolata ed incolta.
    Fino a quella notte in cui aveva trovato un pertugio ed era affiorata, guardandomi attraverso i suoi occhi con la stessa innocenza infantile di quando lei vi aveva rinunciato per sempre, imprigionandola.

    Dannazione. Non riuscivo a smettere di pensarla, mi venivano alla mente tutte quelle stronzate da poeta fallito. Lei era solo una stronza, questa era la verità, non nascondeva nulla di dolce al suo interno, sapeva perfettamente quanto fosse pericolosamente attraente e, come tutte le stronze, lo usava a suo vantaggio.
    Chissà quanto aveva goduto a trovare uno scemo passionale come me, che si era sciolto ai suoi piedi come burro.
    Un sorriso mi solcò il viso, mentre parcheggiavo la moto, goduto, aveva goduto, di quello almeno ero certo.
    Era stata una scopata memorabile anche per me. Avevo sentito fremere la sua pelle al mio tatto e i suoi gemiti che m’imploravano di non fermarmi mai.
    Ricordavo l’orgoglio che avevo provato quando lei si era lasciata possedere, come un generale che sbaraglia l’armata nemica, io avevo abbattuto il suo muro di cinta e l’avevo avuta. Avevo vinto la battaglia ed avevo avuto lei prigioniera per una notte.

    Arrivai davanti alla mia casa, il tragitto dalla sua pensione alla mia cantina era davvero breve.
    Scesi le scalette, accanto all’ingresso principale del palazzo, che portano nel mio seminterrato o più precisamente completamente-interrato, insomma la mia cantina.

    Poggiai la giacca all’ingresso e mi diressi verso il frigo, vi riposi l’avanzo del maledetto pollo e ne estrassi una birra. Mi lasciai andare sulla mia comodissima poltrona, un vero affare al mercato dell’usato in cui avevo acquistato in sostanza l’intero arredamento. Sorseggiai pensieroso, dovevo pianificare la prossima mossa, se ero in guerra, allora avevo bisogno di strategia.

    Mi vennero alla mente due possibilità: scordarmela per sempre, la più sensata e meno pericolosa, quindi non andare per un po’ al locale e dimenticarla del tutto come con le altre; oppure andare al locale la sera stessa.

    Optai per la seconda ipotesi.
    Che cosa avrei fatto una volta lì? Lei era stata chiara non voleva avermi tra i piedi, eppure avevo intravisto un cedimento nei suoi occhi, forse lo avevo solo immaginato. Dovevo saperne di più, costringerla ad uscire allo scoperto.
    Decisi che sarei andato la sera stessa al locale ed avrei attaccato bottone con la prima sgualdrina a tiro, avrei scrutato la sua reazione e deciso il resto del da farsi.
    Andai a letto abbastanza rincuorato dalle mie decisioni.

    Mi alzai dal letto a metà mattinata, mi lavai il viso e sorseggiai del caffè non fresco, lo avevo fatto il giorno prima. Sgranocchiai un biscotto e mi vestii distrattamente, velocemente presi un fagotto posato su un tavolinetto e mi diressi alla moto.
    Arrivai al mio lavoro, parcheggiai, scesi, attraversai le moto che erano parcheggiate nel vialetto. Quel posto aveva sempre un’aria tetra, probabilmente era dovuto alla somiglianza con una discarica o alla gran quantità di lamiera che era sopra al tetto dell’edificio, ed anche tutto intorno.

    Un bel cane venne a farmi le feste,
    “Briciola, come stai? Felice di vedermi?”
    Il cane continuava a saltare e a leccarmi, stravedeva per me, forse per tutte le coccole che le facevo o perche di tanto in tanto le portavo qualche prelibatezza che scartavo dai miei pasti.

    Il mio splendido momento di coccole fu interrotto dalla voce adirata del suo proprietario.
    “Inglese maledetto. Ti sei fatto vivo. Non ti pago per presentarti quando ti pare. Sono due ore che aspetto quel fanale di merda. L’hai trovato almeno?”
    “Non esagerare nei saluti. So che sei felice di vedermi. Soprattutto perché sto per dirti che il vecchio Spike non solo l’ha qui con sé, ma ha trovato il fanale originale, Harley 1975 o 76 non cambia…stesso modello SX 175. Ho preso anche gli specchietti, il fanale posteriore, il porta targa ed anche il carburatore.”
    “Fottuto ladro. Dove l’hai rubati? Non m’interessa, quanto vuoi per tutto?”
    “Cento dollari, ma il carburatore è a parte, non so se te lo vendo. Vedo chi mi offre di più, è un affarone.”
    “Canaglia che non sei altro. Mai fidarsi di voi adoratori della regina. Duecento dollari e mi dai tutto.”
    “Due e cinquanta e ti ci aggiungo anche un paio di stop.”
    “Due e trenta e non provare ad alzare, sennò ti prendo a calci in culo la prossima volta che metti piedi qui.”
    “Andata. Ho tutto qui tranne il carburatore, te lo porto domani in giornata. Te paghi adesso in contanti però.”
    “ Fa che non mi stai inculando. Adesso sbrigati che c’è del lavoro per te. Un’altra Harley del paleolitico, il tipo che l’ha portata paga bene e dice che ci tiene molto. Io non so dove metterci le mani, come la tocchi si smonta tutta per quanto è arrugginita. Vedi di usare le tue manine d’oro per farla ripartire. Poi magari vedi se ci possiamo cambiare qualche pezzo così, ci alziamo parecchi soldi. Vedi, se mi fai un bel lavoretto, come ti pago bene stavolta.”
    “Ok, ok, tranquillo sai che con le pollastre arrugginite sono il migliore, due carezze e si lascerà andare, il motore tornerà a rombare come nuovo.”
    “Bella questa, cammina e vai a guadagnarti i soldi.” Sentivo la sua risata protrarsi mentre io srotolavo il fagotto che avevo in mano. Ne uscirono tutti i pezzi della moto che avevo saccheggiato la sera prima, li raccolsi e li posai davanti al suo sguardo curioso.
    Presi la tuta che li teneva e me la infilai sopra i pantaloni. Mi tolsi la giacca e la appiccai sulla mia moto, allacciai la tuta fin sotto il mento e velocemente mi recai dalla mia paziente.

    Scrutandola bene notai che, in effetti, era davvero mal ridotta. La ruggine si era impadronita di gran parte dell’intelaiatura e probabilmente il carburatore era ingolfato. Era antica, degli anni sessanta, una Sportster 883, il serbatoio era sicuramente stato cambiato in seguito, infatti aveva stampato il simbolo con AMF dinanzi al marchio dell’Harley perciò era senza dubbio posteriore al ’69 . Era strepitosa, davvero una moto bellissima, il tempo la rendeva solo più interessante e misteriosa.

    Ci sarebbe voluto molto prima di farla ripartire, ma ci sarei riuscito. Avrei dovuto cambiare parecchi pezzi. Cominciai così a smontarla delicatamente per cercare di capire e memorizzare tutti i pezzi che mi dovevo procurare. Ci persi parecchie ore, non mi resi conto per niente del tempo che passava finché non mi accorsi che si era fatto buio.
    Andai da Haward, era così che si chiamava il grassone. Era uno stronzo, ma una buona persona con cui lavorare. Era più di un anno che stavo lì, non avevo orari e venivo pagato a cottimo. Aggiustavo moto d’epoca, Harley in particolare e trovavo pezzi di ricambio che rubavo in giro. Lui cercava sempre di pagarmi meno, ma aveva bisogno di me.
    Non ero un tipo affidabile e indubbiamente ero irritante oltremodo ma ero leale e soprattutto sapevo prendere con dolcezza le vecchie carcasse e con determinazione e pazienza le rimettevo a nuovo.

    “Allora, io vado. La bambina mettila al coperto. Ha già sofferto abbastanza, deve averne passate tante, ha tutti i segni addosso dei maltrattamenti. Ci vorrebbe un modo per togliere le moto alle persone con poco cuore.”
    “Inglese ma quante chiacchiere?! Insomma dimmi, si può aggiustare? Quanto ti ci vuole?”
    “Aggiustare si può aggiustare, ma mi ci vogliono almeno una quindicina di giorni e parecchi pezzi di ricambio perciò dì al tipo di preparare parecchi verdoni, se ci tiene davvero.”
    “Vai tranquillo ci penso io. Te cerca di sbrigarti. Ci vediamo domani e non bere fino a pisciarti sotto stanotte.”
    “Fottiti. Vedrò cosa posso fare.” Mi stavo sfilando la tuta e rimettendo la giacca, sentivo la sua risata grassa come lui che si allontanava, probabilmente il vecchio stava andando al cesso. Diedi qualche carezza alla cagna e saltai in sella, prima tappa casa, doccia e poi dritto al locale.
     
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    CAPITOLO 5.


    Arrivato a casa posai i soldi in un doppio fondo di un cassetto insieme a molti altri.
    Mi spogliai tutto e mi diressi nella doccia. Mi insaponai per bene, cercando di far andar via di dosso l’odore di carburante e di grasso.
    Presi una spazzolina per le unghie e iniziai a massaggiarle con il sapone. Dovevo togliere le macchie nere di grasso, mi dava fastidio andarci in giro, vedevo la gente che me le guardava e giudicava o almeno così mi pareva.
    Mi vestii velocemente ma con cura e sistemai i miei capelli ossigenati, di lì a poco avrei dovuto rischiarirli, la ricrescita stava per essere troppo evidente.

    Infilai la giacca e cercai nelle tasche la fiaschetta di bourbon, ne presi un bel sorso e la rimisi apposto, uscii pensieroso dalla porta e salii in moto.
    Mentre parcheggiavo, vidi che al locale non c’era molta gente, pensai che non fosse strano, era martedì sera e non tutti uscivano per bere.
    Appena dentro iniziai a scrutare le persone, il più disinvolto possibile.
    La cercavo, guardai al bancone e non la trovai, in sala neanche. Mi avvicinai al bancone ed ordinai del bourbon, la barista mi sorrideva. Era una biondina abbastanza carina, qualche sera prima avrei approfittato ma stasera mi sembrava vuota, insulsa. Volevo lei, le altre erano solo un ripiego. Fui imbarazzato per i miei pensieri, come potevo essere già così ridotto.
    Al diavolo, la volevo e l’avrei cercata.
    “Senti scusa, cerco una ragazza.”
    “Non ne avevo dubbi.” M’interruppe “Se aspetti la fine del turno, mi porti dove ti pare.”
    “Senti, bellezza, si chiama Faith e lavora qui, ne sai niente?”
    “Sì, ma non lavora fino a giovedì. Lavora solo quattro sere. Se vuoi, gli dico giovedì che l’hai cercata. C’è altro che posso fare per te?”. Mi guardava ammiccante.
    “No guarda non fa niente. Anzi non le dire niente, ci penso io. Grazie.”

    Uscii velocemente dal locale, rimasi seduto sulla sella per qualche minuto. Non sapevo bene cosa fare. Bevvi ancora dalla mia fiaschetta e carezzai distrattamente il fianco sinistro della moto. Trovai il coraggio e decisi di recarmi a casa sua, non prima di aver bevuto ancora. Mi scolai l’intera fiaschetta e finalmente con qualcosa di più simile all’incoscienza, che non al coraggio, accesi la moto.
    Arrivai al piazzale della pensione, spensi il motore e rimasi a guardare la sua finestra. Era in casa ed era sveglia, delle luci si proiettavano dalla sua finestra, probabilmente guardava la tv. Cercavo di immaginare cosa le avrei potuto dire. Non mi veniva nessuna frase alla mente. Volevo baciarla e magari fare di nuovo l’amore con lei.
    Volevo sentirla vicina. Mi accesi una sigaretta mentre continuavo a fissare la sua finestra. D’improvviso vidi la tapparella che si spostava leggermente. I suoi occhi erano un po’ sfocati, ma vedevo chiaramente che mi stavano guardando. Rimanemmo un po’ di tempo così, lei mi scrutava di nascosto ed io la braccavo come una preda.
    Vidi un movimento impercettibile del suo viso, forse fu l’alcol oppure la distanza, ma quel gesto mi parve un invito. Non so ancora se lo fece davvero o lo immaginai.
    Balzai di scatto dalla sella e mi diressi verso la porta, giunto di fronte, quella si spalancò prima ancora di bussare.
    Lei era lì dinanzi a me, era splendida, misteriosamente magnifica. La guardai esterrefatto, mi accorsi solo dopo che era praticamente nuda, ad eccezione per una canotta lunga, bianca, non aveva nulla addosso. Anche quella era ben poco, seppure fosse piuttosto larga, lasciava trasparire molto, le si vedevano i seni e l’ombelico.
    Rimanemmo molto in silenzio.
    “Posso entrare?” dissi infine.
    “ssshhhh… non parlare, inglese”

    Mi afferrò per una mano e mi tirò dentro, la iniziai a baciare. Stringevo forte i suoi capelli tra le mie mani, erano così belli.
    Le carezzavo il viso, e il collo, quella sera sembrava diversa, non sapevo dire in cosa. Mi sfilò la maglietta e la tirò via, facendola volare per terra. Con il piede diedi un calcio alla porta per farla chiudere dietro di me.
    Lei mi carezzava il ventre e il pacco, era selvaggia come la notte precedente ma c’era qualcosa di tenero e di spaventato in lei, credevo di sentirla stringermi più forte, quasi volesse non lasciarmi più andare.
    Percepivo che non era solo il mio corpo che voleva, in qualche modo quella ragazza mi desiderava, desiderava avermi dentro di lei.
    La accontentai, almeno in senso fisico. Penetrandola mi accorsi di comprenderla, non percepivo solo la sua pelle liscia e profumata a contrasto con la mia, sentivo la sua essenza, credevo di percepire la sua paura, il suo eccitamento.
    Toccavo le sue cosce sudate con il mio bacino come in un unico corpo e mi chiedevo cosa fosse, perché le sue mani sembravano fondersi con i miei pettorali e le mie labbra con le sue.
    Poteva essere l’effetto dell’alcol, oppure davvero i nostri corpi si stavano dicendo tutto quello che non sarebbe mai uscito dalle nostre voci.
    Continuammo a giocare tra noi gran parte della notte, senza dirci nemmeno una parola, finché la stanchezza non prese il sopravvento, ci addormentammo abbracciati.

    Mi svegliai prima di lei, il suo volto mentre dormiva era angelico. Si teneva forte con le braccia alla mia vita ed appoggiava il lato sinistro del suo viso sul mio petto. Il suo profilo perfetto era illuminato da un impercettibile sorriso.
    La vigilavo in silenzio, notai come fosse bella senza il trucco, le sue labbra erano meno provocanti e più graziose, quasi perfette.
    La sua mano destra era distesa su di me, guardai la scritta sulle nocche “RAGE”; pensai che di rabbia quella ragazza ne avesse davvero tanta dentro. Guardando bene vidi come delle piccole abrasioni, mi chiesi se in qualche modo gliele avessi procurate io, forse durante la prima notte. D’improvviso mi sentii in colpa.
    Poi il mio pensiero fu distratto, un raggio di sole le sfiorava una spalla scoperta, spostai delicatamente il lenzuolo e le sbirciai la schiena. La sua pelle era liscia e candida, senza imperfezioni.

    Le carezzai dolcemente i capelli e cercai di godere il più possibile del suo profumo. Sentì la voglia di penetrarla di nuovo, salirmi in tutto il corpo e concentrarsi in un solo punto indurendolo.

    In quell’istante lei si svegliava, alzò il capo lentamente e con stupore mi guardò.
    “Buongiorno passerotto, dormito bene?” Nel dirlo mi scoprì imbarazzato.
    Il suo sguardo scorreva agitato da un mio occhio all’altro. Si alzò velocemente, mi fissava dal lato del letto.
    “Al cento per cento. Ora vado a lavarmi.”
    Aveva un’aria spaventata, mentre ostentava sicurezza, pensai che fosse pentita di essersi lasciata andare ma non riuscivo a capacitarmi bene del perché.
    Pensavo di cosa mai potesse aver paura una ragazza così bella e forte. Immaginai che la risposta l’avrei trovata nel suo passato e decisi sul momento che avrei indagato.

    Mi allungai a prendere una sigaretta e rimasi nudo nel letto ad attenderla. Dopo poco sbucò dalla porta scorrevole del bagno, al solito era nuda ed ancora bagnata. Nel vederla mi scoprì nuovamente eccitato.
    “Hai intenzione di scaraventarmi fuori di casa come l’altra mattina? No perché, in caso devi darmi cinque minuti in più, che non riesco ad immaginare dove siano finiti i miei pantaloni.”
    Cercavo di stabilire un contatto, se mi avesse buttato fuori un’altra volta, sarei davvero divenuto furioso.
    “Nessun problema, rimani quanto vuoi. Io vado a cercare del caffè al bar.”
    Era la risposta che avrei desiderato, ma il suo modo di rimanere impassibile mi ferì maggiormente. Sembrava completamente disinteressata alla mia presenza. Se me ne fossi andato o fossi restato non avrebbe fatto alcuna differenza. Sentì la rabbia montarmi dentro.
    “Diavolo la mattina sei strana un bel po’.”
    “Non sei il primo a dirmelo.”
    “Cristo” mormorai “Stanotte sembravi più interessata alla mia presenza. Sentivo come sospiravi per quello che ti facevo.”
    “Non montarti la testa bambolotto. Mi hai fatto solo quello che volevo.”
    “Non mi sembra ti abbia dovuto pregare, amore.”
    “Non ce n’era bisogno. E comunque non sarebbe servito.”
    La sua risposta mi aveva innervosito davvero. Si prendeva gioco di me, quella notte l’avevo sentita vicino, ora non poteva negare.
    “Stiamo facendo conversazione, bene, facciamo dei progressi, mia cara.”
    Mi guardò ostinata, nei suoi occhi vidi la rabbia salire.
    “Faresti meglio a vestirti. Ho fame, andrò a fare colazione qui al bar. Te che intenzioni hai?”
    Per tutta risposta m’infilai i pantaloni e presi la mia camicia, la lasciai slacciata, vedevo il suo sguardo esitare sui miei addominali. Cercava di non farsi notare ma sentivo che mi voleva. Probabilmente era solo un abbraccio quello che cercava, non ne ero sicuro.

    “Allora capitano, le va bene se vengo in missione con lei. Quante ciambelle dovremmo abbattere?”
    Cercavo di eliminare l’imbarazzo che si era creato dal suo risveglio.
    Mi guardò sorridendo, mentre si vestiva, lo feci anch’io di rimando, era stupenda quando sorrideva.

    Ci incamminammo verso il bar. Una volta dentro ordinammo e ci sedemmo ad un tavolo, proprio come avrebbe fatto una coppia qualsiasi. Il suo modo di parlarmi era costruito ed un tantino arrogante. Era chiaro che stesse ancora sulla difensiva.

    “Allora io prendo uova e pancetta. La adoro quando è tutta croccante.”
    Mi resi conto che quella era la prima cosa che diceva di piacerle, evidentemente per quanto lei si sforzasse di negarlo, qualcosa stava lentamente cambiando.
    “Allora ami qualcosa anche tu.”
    Cercai di scrutarla il più che potei, volevo interpretare ogni singola reazione. Quella ragazza era in parte ancora un mistero per me, ed ero intenzionato a venirne a capo.
    “Sì, forse qual cosina c’è.”
    “Io invece amo le ciambelle. Da inglese quale sono, non posso far a meno di apprezzare le vostre cose più genuine bourbon e ciambelle. Mi sembra siano le armi con cui avete conquistato il vecchio west.”

    La conversazione, seppur a singhiozzi, sembrava aver preso piede, lei più che altro sorrideva e già questo ero di gran lunga superiore a ciò che potevo immaginare.
    “Allora sei stata sempre e solo a Boston prima della grande mela?”
    Lei mi guardò leggermente perplessa, forse non si aspettava domande sul suo passato.
    “Maggiormente. Non ho mai fatto dei veri e propri viaggi. Ho solo cambiato città, quando mi diventava stretta.” Avevo percepito un leggerissimo cambio nel suo sguardo, sembrava propensa a raccontarmi qualcosa.
    “E come mai Boston ti era diventata stretta? Dicono sia una città carina.”
    “Lo è. Il punto è che se scappi di casa è troppo facile che i servizi sociali ti rintraccino. Specialmente se sono sulle tue tracce.”
    Mi resi conto per la prima volta di quanto fosse più piccola di me. Doveva avere al massimo vent’anni, ma forse anche qualche cosa di meno. Come minimo aveva quindici anni meno di me. Eppure aveva già il viso così duro, così segnato dalla solitudine e dalla rabbia che sembrava una mia coetanea.
    “A che età sei scappata di casa?”
    “La prima volta a quattordici anni, per via di un ragazzo più grande. Mi rintracciarono dopo quasi un anno, ero sola, niente più ragazzo, vagavo moribonda nella periferia di Boston. Stetti un annetto in famiglia, con mia madre e il suo compagno nuovo. Non mi dispiaceva, tutto era meglio di mio padre. Evidentemente mi sbagliavo, così a sedici anni dovetti scappare di nuovo e stavolta per sempre. Non ho più nessuno da cui tornare anche volendo.”
    Il suo sguardo s’incantò fuori dal vetro del bar, cercava qualcosa all’orizzonte. Il suo dolore era scritto nei suoi movimenti, sapevo che non mi aveva detto tutto, ma avevo ottenuto un pizzico della sua fiducia.
    “Come mai? Sono morti?”
    “Mio padre no, vorrei poter dire che non glielo auguro, ma mentirei. Mia madre fu uccisa il giorno che scappai di casa. Non era un asso nello scegliersi i compagni. Ammesso che esistano uomini migliori.”
    “Non per difendere la categoria, ma non siamo tutti uguali.”
    “Tutti gli uomini sono bestie. Vogliono solo darci la caccia. Possederci.”
    “Non hai una gran considerazione degli uomini. Ma ti capisco, la maggior parte di noi sono come dici. Tutti no.”
    Mi guardava con un sopracciglio leggermente alzato ed un’espressione come di sfida dipinta sul viso.
    “Perché te cosa cercavi l’altra sera? Non cercavi di possedermi?”
    La sua domanda mi imbarazzò.
    “Ma ora sono ancora qui. Comunque se non ho capito male stasera non lavori?! Perché non stiamo a cena insieme, se vuoi ti porto a cena fuori o ti porto la cena lì a casa tua? O vuoi venire da me?”.
    Mi fissò un secondo attentamente negli occhi.
    “A casa tua va bene, passami a prendere alle sei. Non ti montare la testa.”
    “Ok, alle sei in punto. Ora devo scappare. Devo sistemare delle faccende di lavoro. Ci vediamo dopo.”
    Mi alzai velocemente, lasciai sul tavolo i soldi per entrambe le colazioni e prima che lei potesse accorgersene, le bacia innocentemente le labbra e senza voltarmi scappai via. Immaginavo la sua espressione, probabilmente la cosa l’aveva fatta arrabbiare ed ora mi stava maledicendo con lo sguardo. Oppure era contenta che l’avessi fatto.
    Era un mistero quella ragazza. Non avrei mollato, non ora, non ora che avevo saputo di più.
     
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  5. kasumi
     
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    Ho letto il primo cap.
    Faith mi sembra perfetta :wub: e per ora anche Spike.
    Leggo il resto al più presto!
     
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  6. kasumi
     
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    Awwwww! Questa fic mi sta piacendo tantissimo! *.*

    CITAZIONE
    Lo invitai ad entrare, la stanza era un disastro. Doveva essere così da settimane ma me ne resi conto solo in quel momento. Il letto era sfatto e pieno di vestiti, per terra c’era di tutto, dai tanga, fino a cartoni unti di pizza e bottiglie vuote di birra. In cucina c’erano bottiglie ovunque.
    “Non sei un’amante dell’arredo?”
    “No, direi di no. Non amo la casa.”

    Qui mi è venuta in mente una scena di Friends!! XDD

     
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    Ahahahaha si infatti!!
     
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  8. kasumi
     
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    Adoro le atmosfere dolci-amare e un po' drammatiche, un po' di angst, i tipi ribelli come Faith (ho adorato il libro 'uomini che odiano le donne') e quel modo di scrivere diretto che ti arriva all'anima, senza fronzoli.
    E poi amo l'nc17, naturalmente XD
    Insomma, questa storia ha tutte le carte in regola (e ha Spike :cute: ) per diventare una delle mie storie preferite!! :wub: :wub:
    Aspetto il continuo con ansia ^_^
     
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    Grazie Kasumi, mi fa davvero piacere che ti piaccia!!
    Anche a me piacciono le atmosfere drammatiche, mi piace l'amore-amaro... non posso farci niente... Faith la sto amando tantissimo, mentre scrivo mi innamoro di lei... e Spike non ne parliamo!!!
    Cmq ho già scritto fino al cap. 8 ma ho bisogno di qualche giorno per aggiustarli...
    CITAZIONE
    e quel modo di scrivere diretto che ti arriva all'anima, senza fronzoli.

    :cute: :cute: :cute: :cute: :cute: :cute: addirittura all'anima, ti ringrazio.. *sorride e rimane senza parole*
    CITAZIONE
    Insomma, questa storia ha tutte le carte in regola (e ha Spike :cute: ) per diventare una delle mie storie preferite!! :wub: :wub:
    Aspetto il continuo con ansia ^_^

    :cute: :cute: :cute: :cute: quanti complimenti grazie!! :D sono felicissima...
     
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    CAPITOLO 6.

    Rimasi impietrita seduta al bar, lui mi aveva baciato prima di andare via. Come se fossimo una coppia, una normale coppia che stava facendo colazione: lui va al lavoro, bacia lei e vissero felici e contenti. Prima di scoprire che lui nel tempo libero veste da infermiera sexy la segretaria, di poco più giovane della figlia, e che la moglie si ubriaca fino a risvegliarsi nel pianto e nel vomito.

    No grazie, non fa per me.
    Dovevo riuscire ad interrompere quella spirale che mi stava travolgendo.
    Io non ero la ragazza di nessuno, ero mia e le cose me le sbrigavo da sola.

    Non avevo bisogno di nessuno.

    Rimasi a giocherellare con la forchetta sul piatto, ormai vuoto, della mia colazione. Pensavo a cosa avrei dovuto fare quella sera.
    Non potevo negarlo, quell’inglese aveva il potere di confondermi, senza dubbio riusciva a farmi cose assurde. Era pericoloso. Io ero pericolosa.

    Dannazione. Avrei dovuto dargli molto meno peso. Comportarmi come se quando ero con lui non mi accadesse nulla. Negare tutto quello che provavo, magari comportarmi da stronza, da insensibile, ferirlo il più possibile. Così sarebbe stato lui ad allontanarsi da me, per sempre.
    Non so cosa aveva intravisto in me che gli piaceva, in ogni caso dovevo dimostrargli che si era sbagliato.

    Sono solo una ragazza molto cattiva.
    Una ragazza pericolosa. Devo stare da sola.
    Quello che ho fatto in passato può riaffiorare in qualsiasi momento.

    Mi alzai e mi diressi verso il mio alloggio, non tutti i dubbi si erano dipanati. Arrivata in stanza, mi spogliai e rimasi in mutande e reggiseno, accesi la tv. Davano un vecchio film in bianco e nero.
    Mi sdraiai sul letto e decisi di guardarlo.

    Il film era estremamente sentimentale. C’era lei vestita come un angelo, addirittura con il cappellino con la veletta, che non si concedeva a lui, che ormai era uno zerbino.
    Alla fine si sposeranno e andrà tutto a meraviglia, ne ho visto un milione di film così. Solo che si fermano tutti alla luna di miele. E poi? Che succede dopo alle coppie felici?

    Considerato con quanti uomini sposati, avevo scopato e com’era andata la storia tra i miei, non credo che il matrimonio sia un dono divino. Avevo sentito dire fosse la tomba dell’amore, ero d’accordo.
    Qualcuno diceva che si può vivere insieme senza sposarsi, convivere.
    Non capivo la differenza, come poteva essere meno doloroso. Tutti alla fine ti deludono.
    Ti feriscono, è così che gira il mondo. Credo sia la delusione, il dolore e la rabbia a farlo funzionare.

    Eppure ogni tanto, raramente, m’immaginavo con qualcuno accanto. Qualcuno con cui divedere la tristezza, il dolore e la stanchezza. Magari che trasformasse il tutto in attimi di gioia.

    Era da quando ero bambina che facevo a pugni con il mondo.
    Non immaginavo si potesse smettere, credevo che la vita fosse una rissa continua. Lottare, era l’unica cosa che avevo imparato.
    Immaginai quanto sarebbe stato bello avere qualcuno che ti copre le spalle, qualcuno che dà i pugni che non avevi fatto in tempo a sferrare.

    Non sarei mai stata una donna angelica, di quelle con i tacchi ed i vestitini chiari a fiori. Con uomini in cravatta che le aprono le portiere, o le spostano le sedie. Non sarei mai riuscita a fingermi così educata, o a reprimere la rabbia.
    Chissà se quelle donne sono felici, se quando s’infilano quei maledetti tacchi, ne sentono il dolore, o sentono i piedini comodi, comodi. Quando smaltano le loro unghie, profumano la loro pelle o quando ridono a orrende battute, si sentono bene o anche loro nascondono solitudine.
    Non le invidiavo, non volevo essere come loro, ma avrei voluto davvero qualcuno accanto. Qualcuno di cui fidarmi. Non per smettere di lottare e farmi difendere, ma per poter lottare per qualcun altro, non solo per me stessa. Immaginai se quell’inglese potesse essere ciò che cercavo. Pensai come saremmo stati insieme.

    “Al diavolo” mormorai “Non fare la femminuccia ora, Lehane”.

    Quei pensieri erano inutili, tanto non sarei mai stata una signora né una moglie. Tanto valeva che mi vivessi quel poco che avevo. Significava andare alla cena dal maledetto ossigenato e scoprire dove aveva intenzione di arrivare.
    Poi ero un secolo che non mi veniva offerta una cena. Diciamo che da quando ero arrivata nella grande mela, ero più sola di prima. Eccetto sveltine, non chiacchieravo con qualcuno da tantissimo. Non che ne avessi bisogno, io vivevo perfettamente in solitudine, o almeno così pensavo, ma neanche poteva farmi male.
    In più quel ragazzo a letto era davvero un asso. Ci sapeva fare davvero, non avevo mai immaginato che un culo inglese potesse essere così focoso. Insomma pensavo da lì venisse solo il tè in bustina, il whisky buono e il rock old school.
    Avevo già conosciuto un inglese prima.
    Nei servizi sociali c’era un tipo, mi sembra si chiamasse Wesley. Aveva provato ad aiutarmi, pensava di fami affidare ad un’altra famiglia. Gli avevo raccontato cosa accadeva a casa, prima con mio padre, quindi anche il motivo della mia prima fuga. Poi gli avevo detto del nuovo compagno di mia madre e di quello che cercava di farmi.
    Lui mi consigliò di attendere i documenti del trasferimento.
    Bel consiglio del cazzo che mi diede.
    Quando poi dovetti scappare, lo cercai per farmi aiutare. Lui preferì chiamare la polizia. Ed ecco il motivo per cui sono qui.
    Dovetti scappare lontano da Boston ed ottenere dei documenti falsi. Non fu facile ottenerli, ma sono forte, questa è l’unica cosa che ho capito.

    I brutti ricordi lasciarono spazio al viso di Spike. Riflettei che quello non poteva essere il suo vero nome.
    In quel momento compresi che m’interessava sapere di più di lui. Insomma perché diavolo lui era finito in una città del genere?
    Decisi che quella sera avrei scoperto tutto, avrei scrutato la sua casa, cercato di capire se era uno a posto.
    Con quei propositi mi appisolai, dovevo essere molto stanca, la notte avevamo fatto tutto tranne che dormire. Quelle poche ore di sonno della mattina non erano sufficienti. Così mi addormentai profondamente.

    Mi svegliai di colpo, per delle urla provenienti dalla camera accanto alla mia. Sobbalzai sul letto. Me ne fregai dei vicini e guardai l’ora erano già le cinque del pomeriggio.
    Mi sentivo riposata, avevo dormito benissimo, ma una strana ansia iniziava a salirmi.
    Mi feci una doccia. Una volta uscita decisi di mettermi su tutto il corpo, una vecchia crema profumata che avevo comprato tantissimo tempo prima ed usato pochissimo.

    Presi ad accarezzare la mia pelle con calma, finché la crema non si fosse assorbita in tutto il corpo.
    Cercai nel borsone dei vestiti diversi.

    Infilai un tanga nero di pizzo ed uno splendido reggiseno in coordinato.
    Trovai dei pantaloni neri di pelle e li infilai, mi stavano d’incanto, il mio sedere sembrava ancora più sodo. Scelsi di abbinarci una maglietta rossa scurissima, quasi bordò. Era scollata sul seno ed aveva le maniche lunghe svasate. Era molto aderente e corta, in modo da lasciarmi l’ombelico scoperto.

    Indossai la cinta con le borchie e gli anfibi. Pettinai i capelli e decisi di legarli. Li raccolsi in una coda alta, lasciai due ciocche ad incorniciarmi il viso.
    Mi truccai meno scura, sugli occhi misi la matita e un pochino di ombretto chiaro. Le labbra le lascai del mio colore, aggiunsi solo del gloss trasparente.
    Mi laccai le unghie con dello smalto nero.

    Sentii un claxon suonare davanti la mia finestra, mi affacciai ed era lui sulla moto, mi sorrise.
    Presi la giacca di pelle nera e senza indugio uscii. Lo guardai mentre chiudevo la porta della stanza, era bellissimo, aveva un sorriso dolcissimo e degli occhi penetranti.
    I pensieri che mi avevano accompagnato da tutto il giorno si dileguarono appena sentii il suo odore, in moto lo strinsi più forte che potei.
    Una strana sensazione di serenità si fece largo nella mia mente e il mio cuore si sentì come protetto.
    Mai il south Bronx mi era sembrato così bello come in quel breve tragitto, la città sembrava sorridere al suo passaggio, al nostro passaggio.
     
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    CAPITOLO 7.

    Feci tutti i giri che dovevo per lavoro, consegnai il carburatore al grassone e diedi una sistemata alla mia piccola ragazza. Decisi che i pezzi che dovevo sostituirci me li sarei procurato la notte seguente quando Faith era al lavoro.
    Mi liberai intorno alle quattro del pomeriggio. Corsi dal macellaio e comprai del pollo. Avevo deciso di cucinare io stesso.
    In casa velocemente mi lavai le mani e preparai in una teglia il pollo con le patate. Decisi di farlo molto condito. Lo infornai e preparai un’insalata.
    Avevo preso una cassa di birra buona, infilai più bottiglie possibili nel frigo. Di bourbon in casa, fortunatamente ce n’era molto, in più avevo preso un po’ di vodka di media qualità.

    Quella cena mi era costata parecchio, ma niente che non potessi recuperare con un paio di furti qua e la… e poi se avessi aggiustato la moto, avrei guadagnato parecchio tutto insieme.
    Comunque non me ne importava nulla, sentivo dentro che quella dolce selvaggia aveva bisogno di coccole, non me lo permetteva fisicamente, allora avrei trovato un altro modo per farlo e la cucina mi sembrò il modo migliore.

    Mentre il pollo si cucinava nel forno, mi lavai ben bene, mi rasai e scelsi i miei abiti migliori: Jeans neri 501, una maglietta aderente nera a maniche lunghe, la mia catena al collo e anfibi.
    Sistemai i capelli non all’indietro come al mio solito, ma con del gel li resi spettinati e dritti, sembravano meno curati, non volevo pensasse che ci avessi perso molto tempo.
    Sistemai lo smalto nero nelle unghie, guardai l’orologio, le sei si avvicinavano. Controllai il pollo era praticamente cotto, spensi il forno, lo avrei riacceso al mio ritorno.

    Guardai la casa tutto intorno, non volevo sembrasse un appuntamento romantico, anche se nella mia testa nessuna uscita con una donna era stata più vicino di quella ad esserlo.

    M’infilai la mia giacca lunga di pelle e saltai in sella. In dieci minuti ero davanti la sua finestra che suonavo il claxon.
    Lei si affacciò dalla finestra ed uscì dalla porta quasi subito, era incantevole. Più bella del solito.
    Sembrava serena, raggiante. Il viso scoperto dai capelli, raccolti in una coda alta, mostrava i suoi occhi da cerbiatta, più in risalto che mai, profondi e magnetici.
    Il suo sorriso aveva qualcosa d’infantile, ma nel complesso il suo volto era duro, forte. Questo la rendeva la donna più interessante che avessi mai visto.

    Ero convinto che avrebbe potuto prendere il mondo a pugni in faccia e con la stessa determinazione carezzarmi ogni notte prima di addormentarmi.
    Sapevo adesso cosa volevo da lei.
    Volevo solo poterle guardare le spalle e starle accanto, non aveva bisogno di essere protetta, era evidente.
    Sentivo che io e lei, insieme avremmo potuto lottare senza stancarci mai.

    Il suo profumo mi travolse come un abbraccio, appena fece per salire in sella, quando poi misi in moto le sue braccia, si strinsero forte intorno alla mia vita, tanto che non sapevo se lo avessi immaginato o realmente mi stesse così dolcemente avvinghiata.

    Il tragitto fu come essere su un treno impazzito.
    Mi veniva voglia di gridare al mondo la mia felicità, volevo festeggiare e solo perché lei mi stava stringendo. Una donna così forte era così saldamente attaccata al caro vecchio William.

    Arrivati a casa le presi la giacca e l’attaccai all’ingresso. La maglietta aderente le stava da schianto, per un momento pensai a quello che avrei voluto fargli, anche lì per terra. Volevo sentirla ancora ansimare il mio nome mentre il suo corpo tremava di piacere.

    Scansai quel pensiero, decisi che non era il momento, quella sera sarebbe stato completamente diverso. Sentivo di volergli dimostrare qualcosa, non avevo perfettamente idea di come lo avrei fatto, ma volevo dimostrargli che ero diverso, migliore.

    Mille dubbi mi assalirono, dubitai di essere davvero un uomo migliore, in passato avevo fatto degli sbagli enormi, non mi ero comportato da grande uomo. Anzi per la precisione era una vita che collezionavo scelte stupide. E poi ero solo un ladro, come può un misero ladro sentirsi migliore.

    Presi una birra dal frigo e la stappai, la passai a Faith, che si guardava intorno curiosa, ne presi un’altra per me.
    “Un brindisi a te, passerotto.” Alzai il bicchierino e la guardai negli occhi “Sei bellissima”.
    Vidi il suo viso divenire un tantino rosso e sorridermi, quella ragazza era capace di farmi sussultare il cuore con uno sguardo.
    “Grazie. Un brindisi anche a te, inglese. Che non sei niente male.”
    Riaccesi il forno.
    “Spero ti piaccia il pollo con le patate. Non ho altro da cucinare velocemente”.
    “Certo che mi piace. Le patate al forno mi fanno impazzire. Non dirmi che sai anche cucinare?”
    “Me lo dirai te, appena avrai assaggiato.”
    “Caspita, sono davvero fortunata.”
    “Mai quanto me. Spero di averti messo a tuo agio?”
    “Come cavalcare un motociclista.” Il suo sguardo era ammiccante, ma c’era qualcosa d’ironico che non avevo notato prima.
    Risi, immaginai che sarebbe stata una serata fantastica.

    Mangiammo il pollo, era davvero ottimo. In cucina ci sapevo fare. Mi piaceva e lo trovavo un buon modo per fare colpo.
    Decidemmo di andare sul divano dopo cena. Chiacchieravamo con serenità. Lei era davvero simpatica, raccontava delle storie molto divertenti sui suoi vari lavori. Non era sciolta, si vedeva che nascondeva qualcosa, probabilmente i suoi sentimenti ma rispetto al primo giorno erano dei grandi passi avanti.
    “Allora, inglese, cosa mi nascondi? Sì, insomma, che diavolo hai che non va per essere tutto solo, senza una donna?”.
    “Che domanda. Abbiamo tutti i nostri scheletri nell’armadio.”
    “Dovrò controllare il tuo. Non sia mai che ci trovo davvero i cadaveri delle tue ex.”
    “Di solito preferisco sparire, non farmi più trovare. Più semplice, niente sangue da pulire dopo, soprattutto avrei bisogno di una cabina guardaroba immensa. Problemi di spazio. Ho solo un armadio a due ante.”
    Lei rise. Mi guardava negli occhi, era la prima volta che mi guardava così, non era rimasto niente della rabbia che avevo visto la prima sera. Era stupenda, più provocante che mai.
    Mi sentì orgoglioso. Avevo fatto breccia, le stavo dimostrando di essere diverso dagli altri.

    “Sai la gente sottovaluta la birra di marca americana.” Alzai la bottiglia e feci per brindare con lei.
    Bevemmo entrambi, lei continuava a fissarmi.
    “Hai mai sentito dire che la birra …” guardai l’etichetta per leggere la marca “che la birra Dixie è un potente afrodisiaco.”

    Un breve sorriso solcò il suo viso, poi piegò un tantino il mento in basso e mi guardò di sbieco. Il suo volto era perfetto, i suoi lineamenti angelici furono sopraffatti dalla selvaggia della sua espressione. Quella bambola emanava sesso in ogni suo movimento.
    “No, ma potrei provare.”

    Avvicinai le mie labbra alle sue abbastanza da sentire il suo odore, il suo respiro che lieve soffiava sul mio. Esitai un istante per assaporarla prima ancora di baciarla.

    Il nostro momento fu interrotto da un bussare incessante alla mia porta. Cercai di far finta di nulla.
    “Non vai ad aprire, prima che ti buttino giù la porta.”
    “Dolcezza sicuramente sono dei rompiscatole.”

    Cercai di immaginare chi diavolo poteva essere a quell’ora. Guai, ne ero certo.
    Maledizione dovevo andare ad aprire, lei aveva ragione, mi avrebbero buttato giù la porta.

    Stavo per prendere la mazza da baseball posata al muro, prima di andare ad aprire.
    Mi fermai un attimo prima di impugnarla, che cosa avrebbe pensato lei se lo avessi fatto. Insomma un “uomo migliore” non impugna una mazza da baseball prima di aprire la porta.

    Dannazione di nuovo il mio passato che torna alla porta. In tutti i sensi.
    Aprì deciso la porta. Rimasi impietrito.
    “Oh, non dirmi che non sei felice di vedermi Willy?!”
    “Casa diavolo ci fai qui, Liam? Come diavolo mi hai trovato?”
    “Non mi dire che hai davvero creduto che non sapessi dove ti fossi ficcato? Sei rimasto il solito sempliciotto che eri Willy”.
    “Non chiamarmi così… adesso sparisci, prima che…”
    “Hey hey, calmati brave heart, sono solo venuto a riprendermi quello che mi devi.”
    “Io non ti devo nulla. Ti sei già preso fin troppo di quello che era mio.”
    “Willy, Willy, ancora con quella storia. Lei era una puttana e come tale non poteva essere tua. In più non aveva niente a che fare con i soldi che mi devi. O ti devo ricordare chi era prima e come vivevi?”
    “Fottiti.”
    Avevo una gran voglia di prenderlo a pugni finché il suo sangue non mi fosse colato dalle mani, ma c’era lei. Non volevo mi vedesse per quello che era stato.
    “Oh si certo. Fottermi, come ho fatto con Dru, il tuo destino. Sei solo un sentimentale, un poeta da quattro soldi. La vita che stai vivendo te l’ho data io. Sbaglio o i documenti che affermano che ti chiami Randy ti sono stati di molto aiuto?”
    “Ero stato chiaro, non dovevi più venire a cercarmi. Sbaglio, o anch’io ho un paio di cosette con cui ricattarti, Liam?”
    “Oh già, il mio passato. Solo che a differenza tua non lo rinnego. Sei un mostro, esattamente come me. Sei violento, lo sei sempre stato.”
    “Io non sono come te.”
    Gli ringhiai in faccia. La mia pazienza stava per darla vinta alla furia. Stringevo i pugni fin quasi a farmi male.
    “Oh certo, ci siamo incontrati a Dover, nella stiva di una nave nascosti come i topi, per caso. Non credo che tua madre ti abbia denunciato per le troppe carezze.”
    Il furore prese decisamente il sopravvento.
    “Non nominare mia madre.”

    Mentre urlavo quelle parole lo presi per il colletto della maglietta e lo sbattei al muro. Stavo per colpirlo quando un rumore all’interno della stanza attirò la mia attenzione.
    Era Faith che aveva fatto cadere la birra dalle sue mani. Era in piedi dinanzi il divano, indietreggiava con il volto sconvolto, la sua rabbia cieca si mescolava alla paura.

    “Ahahahaah, povero vecchio Willy, ancora puttane nella tua vita.”
    “Lei non la devi neanche guardare.” Misi una mano brutalmente sul viso del verme come per coprirgli la vista.
    “Faith sta tranquilla, il bastardo ha finito. Adesso va via, vero?”
    “Faith ecco come si chiama. Ti ricordi di me? Bella scopata, un po’ troppo rabbiosa per i miei gusti, ma niente male.”
    “Ma che diavolo stai dicendo.”
    Lo guardai perplesso.
    “Oh allora la puttanella non ti ha detto che lavoro fa. Willy sei il solito coglione. Vedi una sottana e corri in aiuto. Ma questa è troppo anche per un coglione come te. Ti farà a dadini, è pericolosa, non sai quanto sa di essere una puttana, è troppo selvaggia per te dammi retta. Ci vuole ben altro per domarla. Eh piccola?!”
    “Fanculo, lurido verme. Non provare a toccarmi di nuovo.” Le urlò contro Faith carica d’ira.
    In quel momento non capì più niente. Come “toccare di nuovo”. Quel bastardo aveva toccato Faith. Di nuovo aveva toccato e una persona vicina a me. Dannazione.

    Iniziai a prenderlo a pugni più forte che potevo, lo stesi in terra e continuai a picchiarlo. Presi anch’io qualche colpo, ma tale era la furia che non mi accorsi nemmeno che il labbro mi sanguinava.
    Le tirai dei calci fortissimi sulle costole e sui reni, volevo la sua morte.
    Mi accorsi d’un tratto delle grida di Faith.
    “Basta, lo stai uccidendo. Fermati.”
    Tornai in me, lui era in terra e non reagiva. Cercai di tirarlo su, quando all’improvviso si riprese.
    “Lo sapevo che sei solo un animale. Esattamente come me.”
    Mentre parlava, sputava sangue.
    “Adesso vado, mi pare che per stasera ho fatto abbastanza.”

    S’incamminò velocemente verso la strada, gli sbattei dietro la porta e rimasi qualche istante impietrito.
    Corsi verso Faith, che era al centro della stanza, il suo viso era sfigurato dalla rabbia.

    “Faith, non preoccuparti. Non è niente. Quell’individuo è…”
    “So perfettamente chi è.” M’interruppe. “Adesso ho capito. Doveva esserci qualcosa che non andava. Le tue amicizie, il fatto che sei un animale…”

    “Io non frequento quel bastardo. Non ora. Non sono un animale, maledizione, è colpa sua, mi fa perdere la testa. Ogni volta.”
    “A me sembrava vi conosceste bene tu e Angelus.”
    “Hey piccola, non fare la santarellina. Anche a me sembrava voi vi conosceste bene.”
    “Sì, infatti, ed ha ragione lui. Sono una puttana e sono pericolosa. Perciò adesso lasciami andare a casa.”
    “No aspetta non volevo dire quello che pensi. So che non sei una puttana.”
    “Sì che lo sono. Tu cosa ne sai. Tu non mi conosci, non sai niente di me.”

    In quell’istante lei corse verso la porta e scappò via.
    Presi a calci il divano, distrussi un tavolino ed una bottiglia di birra la tirai, facendola esplodere sul muro. Urlai tutte le imprecazioni che mi vennero alla mente.
    Maledissi il suo nome ed il mio, infine corsi in strada a cercarla.

    Lei non si vedeva, probabilmente era corsa via e aveva guadagnato parecchia strada.
    Saltai sulla moto e partì come un razzo.
    La incrocia pochi isolati dopo.
    “Faith, aspetta. Ti prego fammi spiegare.”
    “Che cosa? Il tuo passato? Non m’interessa.”
    “Non dire così, quello che hai visto non ero io. Davvero io sono diverso, ho solo perso la testa.”
    “Sembra una cosa che facevi spesso, da quanto ha detto Angelus.”
    “Senti il mio passato è uno schifo, lo ammetto sono stato un coglione ed ho fatto cose orribili, ma non sono più così. Non farla tanto lunga, volevo solo dargli una lezione… lui se lo merita…”
    “Non m’importa nulla di te. Non mi è mai importato.”
    “Questo non è vero. Non puoi negarlo, c’è qualcosa tra noi. Calore, desiderio…”

    Lei mi guardò fredda e non rispose. Continuò a correre verso casa sua mentre io continuavo a seguirla in moto. Arrivammo davanti alla sua pensione, parcheggiai e corsi verso di lei.
    Sentivo la testa esplodere. Doveva credermi, doveva darmi una possibilità di farle capire chi ero.

    “Faith, guardami. Aspetta per favore dobbiamo parlare.”
    Lei mi guardò annoiata ed indifferente.
    “Non ho niente da dirti.”
    “Tu non ti rendi conto io…”
    “Sei tu che non ti rendi conto. Non m’interessa, non m’importa nulla di te. Non m’importava nemmeno prima.”

    Quella frase mi ferì profondamente. Il suo sguardo freddo mi gelò il sangue. Pensai che quella maledetta puttana si stava prendendo gioco di me.
    Le presi un polso, mentre cercava di andarsene, e lo strinsi forte in modo da bloccargli il braccio.

    “Te adesso mi ascolti, dolcezza. Quello che è successo stasera non cambia che tu mi vuoi.
    Coraggio lo sento che vuoi ballare ancora con me.”

    Le sussurrai quelle parole all’orecchio mentre lei cercava con strattoni di liberarsi. All’improvviso mi sferrò una gomitata nel basso ventre e mentre cercavo di tamponarmi il dolore, mi assestò un pugno in pieno viso. Rimasi paralizzato.

    “Sei un animale. Come tutti gli altri.”

    Mi urlò quelle parole mentre correva verso la porta di casa. Furono come un cazzotto, molto più forte di quello che mi aveva dato. Mi appoggiai alla moto e mi accorsi che tremavo.
    La rabbia divenne pian piano disperazione.

    Guardavo fisso verso la sua finestra, la vista mi si offuscava sempre di più. Sentì in bocca il sapore del sangue mescolarsi con quello delle lacrime.
    Iniziò a piovere, ero ancora lì, accartocciato su me stesso.

    Presi coraggio e mi avvicinai alla sua porta:

    “Faith. Ti chiedo scusa. Davvero, non volevo mi vedessi così. Per favore ho bisogno di parlarti. Domani tornerò, per chiarire, voglio dirti tutto. Non ti chiederò nulla del tuo passato, in ogni caso non cambierebbe quello che penso e quello che provo.”

    Guardai la porta fra la pioggia e le lacrime, speravo che lei avesse sentito.
    Rimasi ad attendere ancora per un po’, disperato presi la moto e corsi verso casa.
     
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  12. kasumi
     
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    CAP 6
    l'introspezione di Faith mi è piaciuta! secondo me la stai facendo veramente bene! :wub:
    Attenta però che quando vai in introspezione, tendi a scollegare le frasi, il che risulta un po' 'scattoso' da leggere. (avevo avuto questa impressione anche nel primo cap)

    cap 7
    WOW!! la scena con Liam mi è piaciuta molto! (non solo perchè Spike prende a cazzotti Angelus, eh! LOL)
    Ora sono curiosa di vedere come andranno le cose.

    A presto!
     
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    Grazie, sono davvero contenta, ci tengo al personaggio di Faith e spero di non travisarlo!! :spike:

    Per quanto riguarda l'introspezione l'avevo notato. Solo che sto crecando un modo per distinguere l'introspezione di Faith da quella di Spike.
    La prima scattosa e poco articolata, la seconda un pochino più fluida, discorsi più lunghi, metafore, un po' romantica... insomma quasi poetica!! heheeh :P
    Sicuramente dovrò lavorarci ancora, ma spero che con calma la correggerò. Tanto non ho intenzione di abbandonare questa ff, mi sta dando tante soddisfazioni, le idee mi piovono, letteralmente, addosso. :lol:

    ahahaha :risata: contenta che il cap 7 ti abbia dato soddisfazione. L'ha data anche a me, mentre lo scrivevo: immaginavo la scena e sghignazzavo. Bello vedere Angelus che le prende di santa ragione da Spike...
     
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  14. kasumi
     
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    Ti vedo molto ispirata infatti! *.*
    *me felice*

    CITAZIONE
    sto crecando un modo per distinguere l'introspezione di Faith da quella di Spike.

    Oh, non ci avevo pensato. In effetti è difficile differenziare le introspezioni di Faith e Spike, perchè sono abbastanza simili come ragionamenti..^^ Ricordo che quando a James hanno chiesto che personaggio di Buffy volesse essere, se non fosse stato Spike, lui ha risposto 'Faith, perchè è Spike con le tette'! LOL LOL

    Buona giornata! ^_^
     
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    Siiii... lo sono, ispirata!!! adoro questi due personaggi...
    Anch'io penso che Faith sia Spike con le tette :P infatti mi piaceva giocare un po' con questi personaggi così simili...anche se noto una piccola differenza per quel che riguarda la predisposizione ai sentimenti. Secondo me Faith è molto più chiusa e meno romantica, almeno per quel che riguarda la concezione poetica di romanticismo; Spike invece è più incline al sentimentalismo quasi ottocentesco e direi di gran lunga poetico...
    Questa è la differenza che cerco di sottilineare nei loro pov...lei ha studiato molto meno e di certo non legge poesie, lui è un piccolo poeta incompreso che legge molto!!
    Comunque ora vedpo se riesco a sistemarla un pochino... poi in caso ti dico se ritocco qualche capitolo!!
     
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