Questi Piccoli Equivoci

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  1. _Blythe
     
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    Posto con un po' di ritardo perchè questi sono stati giorni ricchi di impegni, quindi vi porgo le mie scuse.
    @piccola: grazie mille per il feedback e l'entusiasmo. I tuoi commenti sono come i biscotti al cioccolato, mi tirano sempre su di morale e fanno tanto piacere ^^
    (ps: troverò il modo di stupirti, tranquilla)

    @keiko: ahahah non pensavo te gustasse la terra Iberica XD Scherzi a parte, grazie mille per i complimenti, detti da te una fanwriter del tuo calibro significano molto.

    Spero di non deludervi.



    3
    Chiamate inaspettate


    Il traghetto ondeggiava sulle placide acque notturne di Sunnydale.
    Alle quattro del mattino, ora locale, l’uomo entrò nella cabina con passo felpato. Una donna bionda era raggomitolata sul sedile; si curvò su di lei, e dolcemente le sussurrò all’orecchio:
    — Sveglia, mon amour.
    I suoi occhi si aprirono pian piano, come quelli di un cucciolo appena destatosi.
    —E’ già ora? — biascicò assonata.
    — Guarda tu stessa — la invitò l’uomo, indicandole il paesaggio alle sue spalle. La donna si stiracchiò, volgendo lo sguardo oltre la finestra rettangolare appannata: una distesa di casette e punti luminosi informi che non rivedeva da quasi trent’anni. Un moto di spontaneo piacere le attraversò la nuca fredda, e non era per via delle mani dure di lui che le solcavano il dorso, lentamente. — Che ne pensi? — le domandò.
    — E’ ora di scendere! — esclamò una voce lontana e anonima.
    La donna prese ad accarezzargli le dita. — Direi che sarebbe magnifico, se mi avessi portato anche la colazione.
    — Come se non ci avessi pensato — rispose sarcastico l’uomo, alzandosi in piedi ed offrendole cavallerescamente la mano.
    — I signori vogliono trattenersi ancora a lungo? — chiese stizzito il facchino, materializzandosi improvvisamente alla porta. I due si scambiarono un’occhiata d’intesa, e prima che potesse protestare, il facchino si ritrovò spalmato come maionese sul pavimento, incapace di muoversi. La donna lo sovrastava centimetro per centimetro, e sembrava uno di quegli animali che si godono lo spettacolo del terrore delle vittime prima di sbranarle. E lui era uno di loro.
    — Posso, vero?
    L’uomo le rivolse un sorriso mellifuo: — Ho già mangiato. È tutto tuo.
    Le urla attirarono l’attenzione: — Ehi, che succede qui?
    — Con permesso, cara— esclamò lui, dando una gomitata all’inserviente che aveva fatto appena capolino: il poveretto andò a sbattere contro il muro del corridoio spezzandosi un paio di ossa, e comunque l’uomo non si fermò. Un altro cercò di immobilizzargli le braccia, ma fu troppo lento: in meno di un minuto i suoi organi erano già stati spappolati, con rimasugli appiccicati ai grossi vetri. Le fece segno di sbrigarsi.
    Percorsero il corridoio a grandi falcate e saltarono giù dal traghetto. Il capitano agitò i pugni in aria, gridando furibondo: — Dove credete di andare?
    Con un righio, l’uomo si voltò mostrandogli la sua vera faccia. Il capitano barcollò, come colpito da un infarto, e immediatamente fece dietrofront, impostando tutte le manovre necessarie a prendere il largo da quei mostri.
    — Grazie ancora per il passaggio! — lo ringraziò l’altro mentre il traghetto si allontanava a gran velocità.
    — Tutto sommato avevi ragione. Ho fatto bene ad aspettare— gli disse la donna — buon sangue non mente.
    — Io ho sempre ragione — gli fece eco l’uomo — e tu hai sempre fame.
    — Già, meno male che ho un metabolismo supersonico e un fidanzato tanto galante da fare certe insinuazioni.
    — Suvvia, cara, stavo scherzando. E poi, non sei contenta di essere tornata? — rispose l’uomo con fare sornione, baciandole la guancia. Sulle labbra sottili della donna spuntò un debole sorriso di accondiscendenza, mentre osservava la sua vecchia città:
    — Casa dolce casa.

    — Signori che nottata!
    Con le mani salde al volante, William oltrepassò un divieto d’accesso per recuperare tempo. In mezzo alla strada c’erano soltanto loro e un paio di sbronzi dall’aria poco raccomandabile che si scambiavano insulti: meglio non rischiare.
    — Voglio dire, abbiamo trovato degli alleati e non alleati qualunque! Un vampiro impomatato e una Cacciatrice pseudopunk – che, peraltro, convivono. Anche se scommetto che ci danno dentro nel weekend.
    William le scoccò un’occhiata indecifrabile a metà tra lo sfinito e il diffidente. — Il tuo è proprio un chiodo fisso.
    — Eddai, bibì, non fare il finto tonto. Hai sempre detto che la lotta è un’elettrizzante scarica di adrenalina ed è risaputo che non esiste valvola di sfogo più gratificante di…
    — Falla finita— la zittì William.
    — Che maniere! È questo il modo di ringraziare la tua fidata sorellina? — ribattè Willow, storcendo le labbra in una smorfia infantile di disappunto.
    — Ringraziarti di cosa?
    — Di questo. — Willow gli sventolò il famoso post-it col numero di Faith. — Ed è tutto merito mio. Non dire che non te ne frega nulla perché non sai mentire.
    — Hai ragione, ma fortunatamente c’è chi lo fa per me.
    — Non sarà facile conquistarla, però sono certa che tu abbia una chance. La sua facciata da dura nasconde qualcosa, forse un cuore di zucchero, ma anche se così non fosse io dico, chissene. Intanto è un gran bel vedere — commentò Willow, fissando il bigliettino.
    “Ci mancava solo questa” pensò William, non proferendo parola.
    Ad un tratto gli chiese: — Se tra voi non funzionasse, credi che…
    — Non ci pensare neanche — sbottò William.
    — Calmati, bibì! Dicevo tanto per dire. Sai che non faccio mai sul serio — si giustificò Willow, accartocciando il foglietto e infilandolo in tasca; William svoltò in direzione della 44esima.
    Il parcheggio del motel era compleamente deserto, proprio come la “hall”. William cercò le chiavi.
    — Buonasera, signor Giles — fece Willow, stropicciandosi gli occhi.
    Suo fratello si voltò di scatto, quasi sbigottito. “Forse abita davvero qui”.
    — Signori Rosenberg — li salutò l’inglese, inespressivo. Sembrava un fantasma colto in flagrante con un prezioso bottino; Willow sbirciò la bottiglia che aveva nella mano destra e senza il minimo senso del pudore, gli domandò: — A cosa brindiamo?
    Giles si strofinò il naso, evidentemente imbarazzato. — Solo il mio compleanno. Nessuna occasione formale, comunque.
    — Tanti auguri — fece William, poco convinto, aprendo la porta e trascinando con sé la sorella.
    La ragazza cadde a peso morto sul letto, e William non la fermò. Si tolse il cappotto e gingillò con le catene sporche di fango, le dita fredde come iceberg. Tutta quella storia gli aveva scombussolato il cervello, non riusciva a fare a meno di pensare ai paletti e alle gloriose generazioni di Cacciatrici che l’avevano impugnato prima di lui. “Che ragione ho di combattere?”
    E niente riusciva a turbarlo più del suo stesso silenzio in merito.

    Spiritus Sanctus, advoco te quem in siculis mansit et sempiternus es.
    Cantilenò Rupert Giles versando il contenuto del boccale nel cerchio tracciato col gesso sul pavi-mento traslucido della stanzetta umida dove erano stipati i cappotti, meglio nota come guardaroba, che, tra parentesi, era anche la sua residenza. Attese, finchè tutto intorno non si levò del vapore, segno inequivocabile che Lui si era destato.
    — Guaritore, ma che sorpresa. Sono trascorsi mesi dall’ultima evocazione.
    — Ad essere precisi, solo cinque settimane — lo corresse Giles dandogli le spalle.
    — Un buon discepolo si vede soprattutto dai dettagli, e la tua fiscalità mi è sempre gradita. Sup-pongo che non si tratti solo di una chiacchierata tra allievo e maestro, però.
    — Da cosa lo arguisci? — chiese Giles.
    — Stai cercando un libro nell’armadio dove custodisci i mantelli — replicò la voce profonda del Sacro Spirito del Brandy.
    Giles si lasciò scappare un grugnito arrendevole e divertito.
    — Hai ragione, Spirito. L’agitazione gioca brutti scherzi.
    — Cos’è che disturba la tua serenità?
    Chiudendo le ante dell’armadio, l’inglese si voltò verso l’ectoplasma che, a gambe incrociate, levitava nell’oscurità della camera, illuminato esclusivamente dalla sua stessa essenza soprannaturale. Era praticamente calvo e la maggior parte dei peli era condensata nella folta barba riccia che gli donava un’aura saggia; nelle mani stringeva il boccale usato per il rito e sorseggiava la sua razione con il garbo di un gentiluomo. — Ultimamente, ho fatto la conoscenza di due fratelli molto giovani e sospetto che la ragazza sia una strega.
    — Una seguace di Lilith? — indagò lo Spirito, accigliato.
    —Per quanto continui a studiarli, non sono ancora pervenuto ad una conclusione e non ho indizi sufficienti. E inoltre sono portato a credere che dubitino di me anche loro.
    — Giles?
    Un colpetto deciso alla porta; lo Spirito tracannò in fretta il resto della bevanda mentre Giles si precipitava a rispondere.
    — Signor Rosenberg.
    — La prego, mi chiami William.
    — C-certo, William. Mi dica.
    Il ragazzo allungò lo sguardo, come se volesse esplorare le profondità del buio in cui l’inglese sembrava intimamente immerso. Poi, con nonchalance, disse: — Avrei bisogno di una raccomandazione.
    — Raccomandazione?
    — Esatto. Ho trovato un simpatico pub nei sobborghi della città, il Willy’s Place, e ho fatto do-manda per un posto da garzone. Indovinate cosa mi hanno detto.
    — Non oso — rispose Giles, pulendosi gli occhiali.
    — “Che non assumono personale promiscuo”. Non posso dar loro tutti i torti, in fondo… — spiegò William, interrompendosi prima di potersi tradire. — Ok, la farò breve. Lei conosce Willy, il proprietario, che è un suo carissimo amico. Potrebbe spendere una buona parola per me?
    — Le dirò la verità, William. Stento a credere che Willy abbia qualcosa contro…
    — Il mio orientamento sessuale è fuori discussione, Giles. E i miei capelli non rilasciano nessuna sostanza tossica, posso rimediarle anche un certificato se non mi crede. Onestamente, penso che sia tutta colpa del dopobarba all’aroma di meringa che mia sorella mi ha costretto a mettere per il colloquio — brontolò William — promiscuo a dir poco.
    — Non lo escludo — commentò Giles, interdetto dalla piega che aveva preso il discorso.
    — Allora, posso contare sul suo aiuto?
    — Ovviamente.
    — Le devo un favore — sorrise William, e Giles chiuse la porta. — Hai sentito?
    — Ogni singola parola — gli assicurò lo Spirito — e quel ragazzo non la conta giusta.
    — E’ parso anche a me — confermò Giles — non è un demone, tuttavia.
    — Il che non lo rende meno pericoloso.
    — Infatti. Il sessanta per cento della mia clientela è ibrida. Che cosa accadrebbe se lui…?
    — Se lui cosa? Non fosse una leggenda?
    Giles si coprì la fronte, un’emozione confusa intrappolata nella gola. — Significherebbe la fine dei miei affari. Significherebbe la rovina.
    — Tutto quel che puoi fare è parlare con il tuo amico Willy. — Lo Spirito gli rivolse un’occhiata di paterna affettuosità. — E raddoppiare le difese. Se davvero la ragazza è esperta di arti magiche, avrà già notato il Velo che offusca la vista dei mortali: impediscile di fare il resto. Cerca la pergamena di Andrakar.
    — Ritenevo che fosse andata perduta.
    — Sai, il bello di essere un’entità astratta è che puoi viaggiare in lungo e in largo, nel tempo e nello spazio, e nessuno può permettersi di aprire il becco. Sei una divinità, dopotutto — rispose lo Spirito bevendo un altro sorso di brandy, raggiante — l’ho recuperata prima che diventasse un inservibile mucchietto di cenere. Ora devi soltanto scovarla.
    — Senz’altro. Grazie infinite, Spirito.
    — Di nulla, Guaritore. Il mio compito è unicamente di indicarti la via, sta a te percorrerla.
    — Hai fatto di me un affarista senza scrupoli. Direi che hai svolto il compito egregiamente.
    — Ti prego, non sprecarti in ulteriori lodi, mio discepolo — tossichiò lo Spirito, tenendo il boccale con presa malferma come se il liquido gli fosse andato di traverso. — In fondo, come diceva quel tale… “Conosci te stesso” e sarai padrone del mondo. E pensare che all’inizio non sapeva neppure sillabare il proprio nome. Ah, il progresso!
    — Sta parlando di Socrate?
    — Sì, sì! L’unica cosa spiacevole del più brillante dei miei allievi è che non sapeva mantenere i segreti. Non so quante volte l’avrò rimproverato per aver spifferato la mia esistenza a tutta Atene e dintorni. Mi chiamava il suo daimon —. Pronunciò quella parola con disdegno. Poi, di colpo, disse: — Vabbè, non rinvaghiamo il passato. A presto, Guaritore.
    — Vale — concluse Giles, inchinandosi.

    Il piccolo Alec stava cercando di seguire lo spartito della Cavalcata delle Valchirie, quando il telefono cominciò a squillare. Con uno scatto Wesley si alzò in piedi e afferrò la cornetta appesa alla parete: — Wyndham Price. Con chi parlo?
    Seguì qualche attimo di silenzio intervallato da una manciata di note acute e lo scrosciare dell’acqua. — Un momento — si scusò Wesley. Poi, rivolto al corridoio: — Faith! Ti cercano!
    Poiché non si dava una mossa, la richiamò: — Faith!
    Il bimbo sembrò perdere la concentrazione non appena la ragazza entrò nel salotto spazzolandosi i denti. Le sue labbra mimarono un “Chi è?”
    — Willow — rispose Wesley, allontanando la cornetta.
    “Che cosa vuole?”
    — Vuole vederti — bisbigliò il vampiro. Rivolgendosi all’interlocutore: — Ha detto che puoi rag-giungerla alla Fabbrica dei Puncake, su Main Street. D’accordo, grazie. Alec, non distrarti!

    — Però. Non male.
    Willow le regalò uno dei suoi sorrisi scintillanti; Faith le stava dirimpetto, penna alla mano, pronta a prendere la sua ordinazione. Era in tenuta da lavoro e aveva i capelli raccolti in una mezzacoda svogliata. La strega lasciò spaziare lo sguardo sulle sue gambe scoperte dalla gonna bianca e avvolte in pesanti calze rosse quadrettate, e si stupì nel vederla così colorata. Così normale.
    — Hai già consultato il menu? — le domandò, con voce atona.
    — Sì. Prenderò un frullato alla banana — le rispose Willow, restituendoglielo. Non si aspettava di fare troppa conversazione, in fin dei conti Faith era di turno, ma la noia la stava massacrando e non poteva sopportare la solitudine; e l’idea di un tetê a tetê con la ragazza la stimolava tremendamente. Molto più degli sfoghi patetici di Cordelia che, imperterrita, continuava a chiamarla da due giorni, ad ogni ora, per chiederle di suo fratello. Come se gliene fregasse qualcosa.
    Con la coda dell’occhio avvistò un gruppo di ragazzi che sghignazzavano tra un puncake e l’altro. Aldilà dei gusti orribili in fatto di abbigliamento, le loro risate erano sgradevoli e ricordavano il verso delle iene in calore. Willow preferì distogliere lo sguardo e ripuntarlo su Faith che aveva appena afferrato il vassoio, colmo di bicchieri, e stava dirigendosi proprio verso il branco.
    Uno di loro la fissò con occhi famelici mentre lei consegnava l’ordine a ciascuno, e prima che po-tesse dargli il suo, il ragazzo le ghermì il braccio in un gesto di sfida e di ingordigia. E Faith gli rovesciò la bibita addosso.
    — Ma sei scema!? — ruggì il tizio seduto accanto, indignato.
    — Non avrebbe dovuto — fece Faith, tetra.
    Il diretto interessato le lanciò un’occhiataccia: — Sai quanto costa questa felpa?
    — Non ne ho la più pallida idea.
    Balzando in piedi, ululò: — Mi devi dei soldi, imbecille. Hai afferrato il concetto?
    Una cameriera asiatica intervenne nella disputa sbattendo sul tavolo una mazzetta di dollari che ammutolì gli astanti. Con fare autoritario, dichiarò: — Fatteli bastare, amico. E sloggia.
    Le iene non se lo fecero ripetere due volte. Faith mosse a malapena la bocca per ringraziare la collega, ma lei la bloccò. — E’ tutto a posto. Va’.
    Faith prese il frappè di Willow. La strega aveva seguito l’intera vicenda sforzandosi di restarne fuori.
    — Ehi — le disse di colpo, con innaturale dolcezza.
    — Ehi — le sussurrò di rimando la ragazza.
    — Dimmi solo il primo insetto schifoso che ti viene in mente e giuro che gliela faccio pagare.
    — Non ce n’è bisogno.
    — Davvero. Non fare complimenti — insistette Willow, bevendo rumorosamente dalla cannuccia.
    — Faith!
    — Devo andare.
    Nonostante la freddezza, Willow riusciva a leggerle dentro e ad aveva intuito il suo disagio, perciò non si offese per i suoi modi sbrigativi. Avrebbero parlato più tardi.
    — Grazie e torni a trovarci! — esclamò Olivia Festung, padrona del Magic Box, contando le banconote lasciate dall’acquirente soddisfatta e allegra. Non tutti i giorni le capitava di vendere un così ingente quantitativo di ali di fenice. O forse era meglio dire mai: le ali di fenice erano alquanto care e venivano impiegate di rado, di solito nelle pozioni antiacne per demoni con la pressione bassa.
    E i geloni dell’inverno erano finalmente arrivati. Sorrise tra sé, stivando i soldi nella vecchia cassa.
    Contemporaneamente qualcuno fece il suo ingresso nel negozio. Tin tin.
    La signora Festung non riuscì subito ad inquadrare il potenziale cliente, in parte nascosto dagli scaffali. Tuttavia, si mostrò immediatamente disponibile: — Buonasera. Come posso aiutarla?
    Era un uomo. Piuttosto alto, leggermente chino sullo specchio di Sou, di fattura arabica e del valore di duecento bigliettoni, intento ad ammirare… se stesso. Si passò una mano fra i capelli color pece, lucenti e profumati, poi si toccò le guance. La signora Festung provò ad unirsi alla contemplazione, con una curiosità al limite dello sconveniente, e all’improvviso gli occhi di lui la trafissero. — Salve — annunciò, con aria gioviale.
    “E’ poco più di un ragazzo” pensò la signora Festung, impressionata. Indossava una camicia a righe lisa e non aveva un solo accenno di barba.
    — Cerca qualcosa in particolare?
    — No — rispose lui, mettendosi le mani in tasca — ma qualcosa cerca me, ci può scommettere.
    “Decisamente strambo.”
    Fecero un giro nella sezione “Antichità del Mondo Classico”, il reparto più economico e ricco di novità. La signora Festung gli illustrò le ultime offerte ma il cliente pareva non ascoltarla ed esa-minava gli oggetti esposti con un’espressione che stonava con la sua precedente affermazione: sembrava alla ricerca di un prodotto specifico. La signora Festung fece finta di nulla, e proseguì nella sua spiegazione delle sfere di Vaius, il più antico stregone dell’epoca romana.
    — Non sono in molti ad apprezzarne la manifattura ed esistono solo quattro esemplari in tutto il globo. Sono perfette per l’evocazione dei defunti e le distorsioni temporali —. Gliene mostrò una, una palla fosforescente di simil vetro dalle dimensioni di un Oreo; il ragazzo non vi prestò molta attenzione. Appariva indubbiamente avvinto da una serie di collane con gli smeraldi collocate sull’altro ripiano.
    — E che mi dice di queste?
    La signora Festung inarcò le sopracciglia, visibilmente contrariata dalla sua superficialità. — Sono dei semplici ornamenti, nessuna storia da raccontare. Sarà per questo che hanno un prezzo stracciato.
    Il ragazzo abbozzò un sorriso, come se stesse pregustando qualcosa di appetitoso. La donna non potè fare a meno di guardare l’orecchino che campeggiava sull’orecchio destro.
    “Una gazza intrappolata nel corpo di un umano? Per quanto assurdo, non saprei come spiegarmi diversamente la sua libido per tutto ciò che luccica” riflettè.
    — La prendo — le comunicò lui, tutto contento.
    — Lo immaginavo — mugugnò la signora Festung.
    — Solo se mi fa un pacco regalo coi fiocchi — precisò il bizzarro cliente. “Perfetto. Anche il suo senso dell’umorismo lascia parecchio a desiderare”. Delusa, si voltò a cercare della carta appropriata quando, in una frazione di secondo, il suo cuore smise di battere.
     
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13 replies since 9/12/2012, 00:23   905 views
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