Questi Piccoli Equivoci

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  1. _Blythe
     
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    Grazie mille per il feedback, ragazze. Noto con estremo piacere di essere riuscito nell'intento primario della fic: stupirvi.
    (Ps: perdonatemi solo la svista, ho sempre creduto che Spike avesse gli occhi scuri. Sorry)

    Ed ecco il primo capitolo:

    1.
    Incidenti di percorso



    Il tipo del motel aveva tutta l’aria di essere inglese. Panciotto, occhiali rotondi, rughe poco curate. E parlantina tutt’altro che sciolta.
    — Non è un gran che — fece Willow, toccando le pareti bianche e rovinate. Effettivamente la stanza era piccola e l’arrendamento decisamente scarno: un letto matrimoniale a materasso duro, una mensola cadente per una televisione di terza mano, e un armadio di legno che poteva contenere al massimo due cappotti.
    — Mi piace definirlo minimalista — rispose l’uomo, pulendosi gli occhiali.
    — Cristo, il bagno è qualcosa di indecente! E dire che, a confronto, la mia cella era una reggia!
    William la fulminò con uno sguardo. — La mia cella — ripetè Willow, sorridendo imbarazzata — è slang americano, sa? Un po’ come dire la mia tana. Ha afferrato la metafora, vero?
    — In realtà, vivo qui da molto più tempo di quanto possa sembrare, miss Rosenberg — la corresse l’inglese. William era chino ad osservare una boccetta d’acqua in cui nuotava un pesce rosso.
    — Le piacciono i pesci, signor Giles?
    Giles annuì. — Ho vinto Leslie tre anni fa al luna park, e da allora non me ne sono più separato.
    — Davvero?
    — No, è il pesce dell’inquilino che ha liberato la stanza due giorni fa. Suppongo che se ne sia dimenticato.
    — D’accordo, la prendiamo.
    Willow strabuzzò gli occhi, incredula. — Che cosa!?
    — Hai sentito, Will. Ci trasferiamo qui. A quando il primo versamento?
    Anche Giles era chiaramente sorpreso. Un’emozione indefinibile gli attraversò il viso: — La prossima settimana. Fate con comodo, signor Rosenberg.
    — Suvvia, mi chiami William — fece il ragazzo, consegnandogli una mazzetta di banconote da un dollaro. Giles non se lo fece ripetere due volte e, chiudendo piano la porta, li salutò allegramente:
    —Buona permanenza.
    — Sì, come no — commentò Willow, a braccia conserte, visibilmente seccata — dico, ti è dato di volta il cervello? Questo è un buco, non c’è spazio per un tavolo da pranzo, figurarsi un armamentario!
    — Andrà benone — la rassicurò William, tuffandosi nel letto, telecomando alla mano.
    — Dimmi solo perché, bibì. Sinceramente.
    — Per Leslie. Ovvio — rispose il fratello, accendendo la televisione.
    Willow trasse un profondo sospiro e si rinchiuse nello sgabuzzino, altresì noto come bagno. Avevano viaggiato per quasi tre ore: l’ultima cosa che William ricordava, prima di chiudere gli occhi, era il parcheggio deserto di un autogrill. Sua sorella poi, una volta desta, aveva provveduto a svegliarlo amorevolmente a suon di clacson, causandogli un bel malditesta che non aveva ancora, del tutto, smaltito. Avevano fatto colazione all’alba con dei biscotti senza zucchero e Willow aveva insistito perché comprassero delle tavolette di cioccolato al mou. E l’emicrania di William lo spingeva alla resa incondizionata.
    Si erano fermati da Macy’s per comprare degli abiti nuovi: William aveva addosso solo una canotta logora e Willow non faceva altro che lamentarsi del maglione che le pizzicava da morire, per non parlare del colore che le ricordava la cacca campestre, e William per poco non era scoppiato a ridere. — Strano, ti ho fatto ridere — aveva osservato lei — quand’è stata l’ultima volta?
    — Divertente, Will.
    Finalmente la ragazza era sbucata fuori dal camerino. Con aria semicivettuola, gli aveva chiesto:
    — Allora, sono una bomba sì o no?
    Indossava una camicetta azzurra che lasciava decisamente poco spazio all’immaginazione, e dei pantaloni a zampa assolutamente pacchiani. William la squadrò, serio. — Sei oscena.
    — Bè, il ganzo laggiù non la pensa allo stesso modo — replicò Willow, facendo l’occhiolino al bellimbusto in tuta Adidas che, dal reparto opposto, se la stava mangiando con gli occhi, mano nella mano con una bassina occhialuta, presumibilmente la fidanzata. William l’aveva guardato di traverso, e l’aveva trascinata via. — Perché devi sempre esagerare? Il sesso non è tutto.
    — Già, ma tutto è sesso.
    — Che perla di saggezza. Di un po’, ci pensi la notte o ti vengono al momento?
    Willow aveva fatto spallucce. — Dubito che tu possa capire. D’altronde il mio fratellone è vergine, che può saperne lui delle gioie dell’amore?
    William avrebbe voluto risponderle per le rime, ma sapeva che era inutile. Sua sorella nutriva una sorta di fissazione e lui non riusciva a comprenderla. — Adesso tocca a te — gli aveva detto, sorridendo maliziosa; e in men che non si dica, si era ritrovato ad acquistare delle magliette con delle scritte incomprensibili.
    Così, vestiti e ripuliti, giunsero a Sunnydale.
    — Su Google sembrava più grande — fu il primo commento di Willow, non appena suo fratello accostò.
    — Quello deve essere il cartello — aveva detto William.
    — Bene, la prima parte del piano è andata. Ora ci serve un posto dove stare.
    — Dobbiamo sbarazzarci della macchina, ricordi?
    — Oh, questo non è un problema.
    Schioccò le dita e in un baleno, la volante si trasformò in una Volkswagen. William deglutì.
    — Da quand’è che conosci questo trucchetto?
    — E’ uno degli incantesimi più elementari.
    — E perché diamine non l’hai usato non appena siamo evasi?
    — Perché la tappezzeria è scomoda e mi avrebbe disturbato il sonno. Semplice, bibì.
    William aveva rinunciato ad arrabbiarsi, emicrania a parte.
    Riguardo alla sistemazione, i due fratelli avevano avuto la fortuna di imbattersi in una conversazione tra il barista e una donna ispanica. Pur essendo pieni di caffeina, e non sopportando i bar, Willow lo aveva convinto ad andarci perché “di solito nei film è così che la gente conosce altra gente e trova le risposte che cerca”. E di nuovo l’emicrania aveva vinto.
    — Si è trasferita da poco?
    — Sono arrivata stamattina con il pullmann di Santa Clara. Non ho particolari esigenze, desidero solo un letto caldo. Non mi tratterrò a lungo — gli aveva spiegato la donna, con forte accento portoghese. Il barista si lisciò i baffi, pensieroso. — Non ha molto denaro con sé?
    — A dirla tutta, no.
    — Vada al motel sulla 44esima, allora. I prezzi sono onesti e…bè, i letti sono a temperatura ambiente.
    La donna parve illuminarsi. — Grazie mille, signore.
    — Obrigado — le aveva risposto il barista, salutandola calorosamente con la mano.
    — Visto? — bisbigliò Willow.
    William si era alzato in piedi, come per seguire la donna. Il barista se ne era accorto, e prima che i due riuscissero a farla franca, disse: — Anche voi di fretta?
    — Abbiamo lasciato l’auto in doppiafila e rischiamo una multa salatissima — aveva esclamato Willow.
    — Guardi cosa non si fa per un buon caffè. Arrivederci! — concordò William.
    La 44esima era una delle strade più periferiche della città, ma non era stato difficile arrivarci, merito del formidabile senso dell’orientamento di Willow. Il motel era riconoscibile solo dall’insegna al neon, ed era di un bianco spento e anonimo. Prima di scendere dall’auto, William aveva controllato i risparmi. — Solo quaranta dollari. È una miseria.
    — Vedremo di farli fruttare.
    “Vorrei tanto che il suo ottimismo bastasse per tutti e due” si era ritrovato a pensare.
    C’erano solo tre piani. Dall’ingresso principale entrarono in una hall che si rivelò essere una sorta di ufficio di collocamento per sbandati, tra l’altro poco illuminato. Dietro una scrivania di pino, stava un uomo in borghese, intento a leggere degli antichi volumi polverosi. Neanche si accorse della loro presenza, finchè Willow non gli rivolse esplicitamente la parola: — Salve.
    L’uomo per poco non morì di crepacuore. — B…Buo…buongiorno, signori. Desiderate?
    — Una stanza dove alloggiare a tempo indeterminato — aveva chiarito William, a scanso di equivoci. Doveva avere una quarantina d’anni e passa, e un animo facilmente impressionabile. “O forse stava facendo qualcosa di losco e non pensava di ricevere clienti” ipotizzò.
    Il propretario richiuse velocemente i tomi e sgombrò la scrivania, dopodichè aprì un quaderno e ne sfogliò le pagine. — Avete dei documenti?
    — Sicuro. — William gli porse le loro carte d’identità, piuttosto stropicciate. L’uomo le aveva studate per qualche secondo e poi aveva chiesto: — Avete particolari richieste?
    — Nessuna.
    — Il primo piano, se possibile. Odio fare le scale — aveva risposto Willow.
    L’uomo le offrì la mano. — Piacere, sono Rupert Giles.
    — Willow Rosenberg. E lui è mio fratello William.
    — Seguitemi, signori Rosenberg.
    La stanza era la 193: Willow aveva trovato buffo che il numero della camera coincidesse con il suo compleanno. A William della camera non importava un accidente, era talmente stanco che avrebbe accettato di dormire anche in un cassonetto, se fosse stato possibile. Perciò la prima cosa che aveva fatto era stato circondarsi di cuscini; prima che potesse rendersene conto, era scivolato nel mondo dei sogni. E ci sarebbe rimasto, nonostante lo scrosciare dell’acqua e le finte risate delle sit-com, se l’emicrania avesse avuto pietà di lui.
    Si rimise a sedere, massaggiandosi le tempie, e si accorse di essere solo. Fuori il sole era già sul punto di tramontare. “Chissà dov’è andata.”
    Accarezzerò la boccia d’acqua. Leslie era quasi immobile, e William invidiava la sua tranquillità.
    “Devo fare qualcosa.”
    — Ha dello scotch, signor Giles?
    Il locandiere glielo fornì senza esitare. — Gradisce del rum?
    William inarcò le sopracciglia. — Curioso. Credevo che voi inglesi beveste solo tè aromatizzato.
    — So di essere atipico, ma detesto cordialmente il tè — confermò Giles.
    — Grazie ancora — disse William, ritornando in camera. Purtroppo sua sorella non era una grande fan dell’ordine, e la mappa poteva trovarsi dovunque. Si abbassò, flettendo il braccio, e riuscì ad acchiapparla sotto il letto; successivamente la attaccò alla parete, servendosi dell scotch. Fortunatamente, le macchie di ketchup non erano molto estese.
    “Dodici cimiteri, il più grande è quello di Restfield. Ci vorranno almeno tre notti per esaminarli tutti” calcolò, facendo scorrere l’indice sui punti in nero “potrei cominciare dal Thomas. È a pochi isolati da qui, e non è molto grande.
    Crack.
    Il rumore di uno schianto. William si precipitò alla porta e, mediante lo spioncino, ispezionò il corridoio: vide sparpagliati i cocci di quello che doveva essere un grosso vaso di ceramica, e il signor Giles intento a raccattarli.
    — Vuole una mano?
    — Sarebbe molto gentile da parte sua.
    William ne prese un paio e li depositò sul vassoio di Giles: — Era molto prezioso?
    — Fortunatamente no — rispose l’inglese.
    — Aspetti un attimo, devo resituirle lo scotch — gli ricordò William. Giles restò fermo davanti l’uscio, finchè William non riapparve. — Stia più attento la prossima volta.
    — Senz’altro — gli assicurò Giles.
    William tornò in camera sua e trascorse il resto del tempo a vedere delle televendite, una dopo l’altra. Si trattava di oggetti di poco valore e palesemente taroccati, anche se, doveva ammetterlo, decisamente originali e inconsueti: amuleti filandesi dell’Alto Medioevo con qualche topazio, collane di ardesia con i segni dello Zodiaco, maschere di antichi spiriti aborigeni, mani di scimmia a ventuno dollari e novantanove…
    Mani di scimmia?
    — Avete capito bene, signori! Mani di scimmia a ventuno dollari e novantanove cent! Senza costi di spedizione aggiuntivi, solo per questo mese! In regalo un filtro contro l’impotenza testato su cinquanta specie animali! Cosa aspettate? Per maggiori informazioni…
    — Gesù — mormorò William, infilandosi un pullover rosso e coprendolo con un cappotto nero.
    Curvo sul bauletto che Willow aveva adoperato come trolley, iniziò a lucidare la collezione di bottigliette di acqua santa e ne ficcò due nelle tasche; tirò fuori le catene con cui amava spezzare i colli dei nonmorti e se le rigirò tra le dita, provando piacere al contatto con il freddo metallo; stava rassettando negli appositi tubetti i chiodi con cui trapassava il petto di quei mostri, quando bussarono alla porta. William cambiò canale e chiuse violentemente il bauletto. — Chi è?
    — Sono Giles.
    — Mi dica.
    — Se ne intende di elettronica?
    — Cosa è successo?
    — Si è fulminata la lampadina della scrivania. Mi aiuterebbe a ripararla?
    “Ma ce l’ha una casa?” pensò William, leggermente irritato. — Per caso lei vive qui?
    — Diciamo che ci trascorro la maggior parte del tempo.
    Almeno il guasto non era grave: William ci impiegò pochissimo ad aggiustare la lampadina, il che lo portò inevitabilmente a chiedersi perché Giles avesse chiesto proprio il suo aiuto per ovviare ad un problema tanto cretino.
    “Che mi stia spiando?”
    Poco dopo, la porta si riaprì. — ‘Sera, bibì! Ti vedo in gran forma!
    William si voltò verso di lei. — Alla buon’ora, Will.
    Sua sorella aveva l’aria di essere felice, o giù di lì. Appoggiò le borse sul letto e gli rivolse un sorriso radioso: — Ti sei deciso a farti la barba. A proposito, ci stai una favola.
    — Dove sei stata finora?
    — In giro a fare shopping selvaggio. Ne avevo bisogno.
    — Immaginavo. Cos’hai trovato?
    — Creme idratanti a prezzi stracciati. E questi — rispose Willow, estraendo una mole impressionante di cosmetici, tra cui ombretti, mascara e lucidalabbra marca PUPA. — Ehi, so di aver fatto l’affare del secolo, ma non c’è bisogno di essere così emozionati.
    — Willow!
    — Oh, forse ti riferivi agli ingredienti della pozione. Bè, in tal caso, guarda tu stesso. Dovrebbe esserci tutto.
    William aprì una delle buste, mentre sua sorella scompariva nuovamente in bagno. — Lingua di lucertola, coda di rospo, artigli di leone, essenza di rosmarino...
    — Quelle schifezze costano quanto dei gioielli.
    — E sangue di vergine.
    — Scorte esaurite, sia lodato il Signore. Un altro po’ e sarei finita al verde.
    William non credeva alle proprie orecchie. — Dici sul serio?
    — Certo che sì. Il rivenditore ha detto che non ne arriveranno altre prima di dieci giorni. Un classico, direi. Oramai, viene utilizzato il sangue di vergine anche per guarire i raffreddori mistici.
    — Esistono raffreddori mistici?
    — Andiamo, mi hai capito!
    Suo fratello era interdetto. — E se prelevassimo il mio?
    — Sarebbe perfettamene inutile, bibì. La tradizione richiede quello di una ragazza, simbolo di innocenza, virtù e castità, bla bla bla. È incredibile quanto quei testi siano sessisti.
    — E quindi cosa proponi di fare?
    Willow ripose il mascara nella pochette. — Ho lavorato tutto il pomeriggio, credo di meritarmi un po’ di riposo, adesso. Jesse e Cordelia mi danno un passaggio fino al Bronze.
    — Jesse? Cordelia? Bronze?
    — Lui è dolce come il miele, e Cordelia è in pratica la reginetta del liceo di Sunnydale. Li ho incontrati per caso al negozio di dischi e non ci siamo più separati. Te li farei anche conoscere, ma a quanto vedo, stasera hai programmi migliori — gli rivelò Willow, tutta sorridente. — Ci vediamo più tardi! Mi raccomando, stendili tutti, eh!
    — Willow! — esclamò William, come se con la sola voce potesse richiamarla a sé. Ma sua sorella aveva già richiuso la porta.

    Per ammazzare il tempo, camminando avanti e indietro tra le tombe del cimitero di Thomas, William cominciò a contare le pecore. Era inattivo da almeno tre quarti d’ora, e la cosa lo infastidiva enormemente: era come se i vampiri si fossero organizzati per sparire dalla circolazione tutti assieme, lasciandolo lì, solo e annoiato. Si sedette su una lapide qualsiasi, sbuffando. L’unico vampiro che aveva individuato era scappato come un vigliacco, senza dargli neanche due secondi per parcheggiare la Volks.
    Guardò l’orologio. Le undici e trenta.
    — Patetico.
     
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